di 
                      Pedro Casaldaliga 
                      
                    Sono 
                      di ritorno dal Venezuela. Non conoscevo ancora questa nazione-sorella, 
                      che a dire il vero era per noi un po' lontana per aver avuto, 
                      a suo tempo, troppo petrolio ed aver preso le distanze dalle 
                      sorelle più povere. Oggi anche il Venezuela è 
                      molto "poveramente" latinoamericano. "Guarda 
                      quelle vecchie auto - mi diceva chi mi accompagnava -; fino 
                      a due-tre anni fa qui si vedevano solo macchine nuove!...". 
                      Nel clima politico venezolano imperversano la miseria, la 
                      disoccupazione, la delusione. Non sono andato in Venezuela 
                      a vedere automobili, logicamente, ma perché la congregazione 
                      dei missionari claretiani, che è la mia congregazione, 
                      celebra quest'anno i suoi 75 anni di missione nel paese 
                      di Bolívar. Abbiamo avuto vari incontri con le comunità, 
                      con religiosi e religiose inseriti nell'ambiente popolare, 
                      nell'Università Centrale, in un congresso indigeno 
                      missionario, con i mass media. Oltre a tante nuove amicizie 
                      e alla scoperta di una chiesa delle basi vivida, crescente, 
                      rimane in me un'immagine forte del Venezuela. E un nome: 
                      Petare. Quello di una macrofavela come appesa per aria, 
                      che ricopre la collina, con le sue minuscole abitazioni 
                      congestionate, come in attesa di un cataclisma cosmico. 
                      L'85 per cento dei poveri del Venezuela vive in area urbana. 
                      E il lavoro informale del Venezuela è quello che 
                      ha il più alto indice nel continente. Scendevo per 
                      quelle vie, che di via hanno solo il nome, e mi commuovevo 
                      nel vedere, simultaneamente, l'agglomerato convulso in un'ora 
                      di punta, le delicate "barre di pane" nelle mani, 
                      la stanchezza e la miseria sui volti ma anche, sugli stessi 
                      volti, l'humour, la parola facile, l'inesauribile gioia. 
                      Per contrasto, tornando in aereo leggevo sulle agenzie internazionali 
                      che "la crisi finanziaria in Giappone ha portato altri 
                      tre dirigenti al suicidio". Si sono verificati 23.104 
                      suicidi, in quel paese, dal 1996. Dei quali, 478 di impresari 
                      - drammatici harakiri neoliberali! Nelle barzellette di 
                      altri tempi, il grido dei ladri era "la borsa o la 
                      vita!". Per questi "poveri" impresari, schiavi 
                      del profitto e della competitività, la vita è 
                      la borsa: la borsa non si è riempita come il dio 
                      di questi tempi esige, e la vita si è svuotata e 
                      ha perduto valore... I poveri, in questa nostra America, 
                      sono senza terra, senza tetto, senza lavoro, ma non senza 
                      senso!La vita è ancora il supremo valore della vita 
                      dei poveri! Una vita, poi, più o meno ambiguamente, 
                      ma indistruttibilmente, piena di Dio: del Dio della Vita. 
                      É la vita che vale! La competitività è 
                      per la vita, non per il profitto. E, in mezzo alle indubbie 
                      violenze che la miseria moltiplica tra questi poveri "senza", 
                      il calore umano, il vicinato allegro, le frotte di bambini 
                      che pullulano tra ferri e rifiuti e colombe, pervicacemente 
                      pacificatrici, confermano la preferenza umanissima dei poveri: 
                      la vita, il dono divino della vita. Non so bene se ancora 
                      - o ancor di più - in codesta cara vecchia Europa, 
                      il "senza" che maggiormente depriva è il 
                      ricorrente "senza senso", sperimentato con tanta 
                      drammaticità soprattutto dalla gioventù. Compagni 
                      e compagne europei, che tornano da visite al loro continente, 
                      me l'hanno amaramente confermato. Gesù di Nazaret, 
                      il Maestro, Colui che è la Vita, che ha dato la sua 
                      vita perché tutti abbiano vita, e vita in abbondanza, 
                      ci ha opportunamente ricordato che "a nulla serve guadagnare 
                      il mondo, se si perde la vita", se la vita perde il 
                      suo senso, se vivere è guadagnare, riempire la borsa 
                      di dividendi, senza riempire l'anima di valori, di amori, 
                      di speranze. É tempo di Pasqua. Un'altra volta. Sempre. 
                      Sempre è tempo di vivere la vita e di dare alla vita 
                      motivi, cause. Per noi, che crediamo nel risorto Gesù, 
                      la vita ha sempre senso, anche nella morte. "Vivi o 
                      risorti" è, in fondo, il nostro dilemma esistenziale.