Sognando l'Ecumene

 



In questi tempi tristi, in cui il cannone (e non solo) è tornato a far sentire la sua cupa voce e ad imporre le proprie ragioni, mentre la forza del pensiero è manipolata da abili burattinai di parole e il mondo sembra essere sempre più appannaggio dei "furbi", non manca, grazie a Dio - è proprio il caso di dirlo! - chi ancora riesce a farci sognare. E' quasi un miracolo, ma il 24 gennaio prossimo, sul colle di Assisi vedremo, un'altra volta, uomini e donne di tutte le religioni, insieme, a pregare per la Pace. Profezia e piccola anticipazione di quanto avverrà alla fine dei tempi, secondo quel cantico di Isaia che è il sogno di Dio: "Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: "Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri"" (Is 2,2-3). Che il Signore realizzerà, senza problemi, i suoi progetti alla fine dei tempi non ne dubitiamo, ma questa anticipazione ha veramente qualche cosa di incredibile nel momento in cui non sono pochi coloro che vorrebbero strumentalizzare le differenze religiose e culturali dei popoli, per mascherare ben altri conflitti e interessi. Ed è sconcertante la facilità con cui i "figli della menzogna" (cfr. Gv 8,44), riescono a propinare le proprie mistificazioni, potendo contare sull'ingenuità, la superficialità o, più semplicemente, la pigrizia mentale di tante persone. Così, tra un bombardamento e l'atro, tra un passo in Europa e uno nel Medio Evo, assistiamo, increduli, a diatribe assurde, ma astutamente architettate, sull'eventuale rimozione di presepi e crocifissi dalle scuole, su diete mediterranee o mediorientali negli asili, sulla possibilità che il nostro vicino di casa, poiché prega, sia un kamikaze…: tutte cose che incendiano l'opinione pubblica, risuscitano sentimenti patriottici che credevamo sepolti più di Lazzaro e investono un numero imprecisato di "paladini" della cristianità, ai quali manca "solo" di aver letto - almeno una volta - nientemeno che il Vangelo. Siamo onesti: sarebbe persino divertente costatare come alcune maestre, dopo anni di inutili tentativi per rimuovere i simboli cristiani dalle classi, in nome della laicità dello stato, cercano ora di cavalcare la tigre dell'islam, di cui non potrebbe importargliene meno. O ascoltare novelli predicatori, tra il politico e il religioso, annunciare con enfasi: "come dice la Bibbia…" e poi una serie di banalità e luoghi comuni scritti dappertutto fuorché nel testo sacro. Ma a frenare la nostra ilarità è la constatazione della ricaduta sociale, in termini di discriminazione, diffidenza, sospetto… fino a vere e proprie forme di persecuzione, che tutto questo comporta. Mai i principi cristiani dell'accoglienza e della solidarietà, dell'amore e della condivisione, e quelli illuministici di uguaglianza, libertà e fraternità erano stati così posti a dura prova - almeno a livello ideale - nell'epoca contemporanea. Ci eravamo forse illusi, cinquant'anni fa, allorché si promulgò la Carta dei Diritti Umani, che l'umanità avesse fatto un passo avanti? Ci eravamo ingannati credendo di aver raggiunto un punto di non ritorno? La tentazione di crederlo sarebbe forte. Ma su questo triste spettacolo di povertà culturale, ancora una volta, si alza forte, direi "luminosa" come luce che squarcia le tenebre (cfr. Is 9,1), la voce del papa, ad offrire una indicazione a coloro - e siamo tutti - che abitano in terra sempre più "tenebrosa". "Non di là… per di qua!" e indica Assisi, l'unica e ultima possibilità dell'umanità per non auto-distruggersi. Non c'è salvezza nella contrapposizione, nell'esclusione, nella violenza: solo un amore eroico, accogliente, compassionevole e capace di perdono può salvare. "Senza perdono non c'è pace": è il tema che il Papa aveva già scelto per la prossima Giornata mondiale della Pace (1 gennaio) in tempi non sospetti, l'estate scorsa, prima dell'11 settembre. Sarebbe però riduttivo leggere questa scelta in chiave esclusivamente contingente o "strategica". Tutto il pontificato di Giovanni Paolo II è stato segnato da slanci verso gli "altri", fossero essi i fratelli cristiani separati, i fedeli delle altre religioni o uomini e donne di culture laiche. Basterebbe pensare agli innumerevoli viaggi, col loro carico di valenza religiosa, sociale e politica, alle richieste di perdono più volte espresse durante l'anno del giubileo e anche, recentemente, alle sue visite in sinagoga o in moschea. Questi slanci non sono una semplice formula di cortesia, ma nascono da una profonda convinzione teologica che, sebbene ancora tutta da esplicitare a livello sistematico - ma questo sarà compito della teologia - traspare chiaramente (fin troppo per qualcuno) dai suoi gesti e dalle sue parole. Ce ne eravamo già accorti in quel ormai lontano 1986, quando spiazzando tutti, annunciò il primo incontro di preghiera delle religioni ad Assisi. Fino ad allora si era trattato unicamente di dialogo interreligioso. Ma incontrarsi per pregare (sebbene con parole e riti diversi) è tutta un'altra cosa. Dialogare è buona cosa, ma al limite lo fanno anche i nemici quando non possono più muoversi guerra. Il dialogo può nascere da una mera necessità e non implica necessariamente un riconoscimento reciproco, tanto meno stima e apprezzamento. Pregare vicini significa invece riconoscere il valore del gesto che l'altro sta compiendo, la verità del suo rapporto con il Mistero divino. Era una vera svolta epocale. Ma in questi ultimi mesi il papa è andato ancora oltre. Il 30 ottobre scorso, parlando all'Angelus della situazione presente, si è rivolto ai fedeli con queste parole: "Non possiamo non ricordare che ebrei, cristiani a musulmani adorano Dio come l'Unico. Le tre religioni hanno, perciò, la vocazione all'unità e alla pace". Le parole, è evidente, non sono casuali ed il papa non parla certo "pour parler". Nella tradizione teologica e spirituale il termine "vocazione" ha un significato tutto peculiare: esprime l'iniziativa di Dio che interviene nella storia di una persona o di un popolo, per invitarlo ad accogliere il suo progetto di salvezza, assumendosi quel compito che in esso Gli ha riservato. Ora, riconoscere alle tre religioni la medesima "vocazione", significa riconoscere che attraverso di esse Dio sta relazionandosi con i rispettivi fedeli, e che esse, di conseguenza, siano tre, diversi, ma reali strumenti di salvezza, posto che l'incontro con Dio ha sempre una efficacia salvifica. Come ciò possa essere pensato in termini cristiani, cioè attraverso quale modello teologico cristiano sia esprimibile tutto questo, è compito riservato agli addetti ai lavori e ben ce ne guardiamo dall'avventurarci per tali impervi sentieri. Non è compito nostro e neanche del Papa. Come Gesù egli deve indicare ai popoli le vie di Dio ed essi devono iniziare ad incamminarsi per esse, senza aspettare che i dottori o gli scribi di turno "codifichino" l'annuncio. Ad importarci è invece la sostanza: senza cadere nel sincretismo o in banali semplificazioni del tipo "tutte le religioni sono uguali" (che sarebbero ingiuste nei confronti di ciascuna), siamo proiettati ben oltre la contrapposizione del vero e del falso. Dopo avere insieme pregato e riconoscendo che siamo destinatari della medesima vocazione da parte di Dio, non possiamo più pensare ed esprimerci in termini, grossolani e scorretti, di "vera e false religioni". Siamo piuttosto impegnati a percorrere un cammino comune di ricerca sempre più rigorosa e sincera della volontà di Dio e di costruzione del suo progetto di pace. E già questa coscienza originaria è un buon inizio, perché ci permette di superare definitivamente quella violenza ideologica, sottile ma reale, che è insita nella presunzione di possedere l'esclusiva sulla verità. Evidentemente non sarà sufficiente che il papa ci offra questa occasione: la sua intuizione dovrà essere tradotta in gesti concreti, quotidiani, da parte di tutti gli uomini e le donne che si professano credenti in questo Dio. E non sarà facile. Significherà scontrarsi con gli interessi dei potenti, con i pregiudizi e i luoghi comuni del volgo, ma sarà anche un'esperienza entusiasmante. Saliremo ad Assisi con il papa e con i credenti di tutte le religioni per rivivere il sogno di una Ecumene riconciliata, il sogno di papa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, in definitiva il sogno di Dio. Saremo per un giorno forse un po' estasiati come i discepoli sul Tabor (Mc 9), ma con la consapevolezza e la disponibilità di chi sa che si sale per scendere, che non potremo costruire alcuna tenda, perché sulla terra non c'è tenda sufficientemente grande per contenere tutti. La nostra casa sarà l'umanità stessa, nella sua pluralità di tradizioni, culture, riti e religioni. Una umanità pluralista e colorata, così voluta da un Dio creativo e fantasioso.

Alberto Vitali



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