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              "Non 
                fasciarti troppo la testa!". Quante volta mia madre mi ha 
                ripetuto questo monito quando, adolescente, mi lasciavo travolgere 
                da qualche idea, inseguita con struggente passione, ma poco raziocinio. 
                Esiste infatti una sottile relazione tra quanto desidera il cuore, 
                perseguono le forze, orienta la vita ed il gesto di cingersene 
                il capo o qualsiasi altra parte del corpo. Sarebbero molti, al 
                riguardo, gli esempi nelle culture dei popoli. Anche la Bibbia 
                usa sovente tali simbologie, soprattutto nei testi dei profeti 
                e nei sapienziali, fino a rappresentare lo stesso nome di Dio 
                come un sigillo da porre sugli israeliti, quale segno di 
                riconoscimento tra i popoli: "tutti i popoli della terra 
                vedranno che porti il nome del Signore e ti temeranno" 
                (Dt 28,10). E Gesù "preso un asciugatoio, se lo 
                cinse attorno alla vita" (Gv 13,4). Concetto o oggetto 
                che sia, il simbolo serve perciò ad esprimere la natura 
                stessa di una cosa, di una persona o di un gruppo sociale; la 
                coscienza che ha di sé e l’atteggiamento con cui si relaziona 
                agli altri. Ma allora perché l’Italia, moderna "repubblica 
                democratica fondata sul lavoro", anziché dell’elmetto 
                dei suoi muratori, degli operai siderurgici o dei vigili del fuoco, 
                si ostina a cingersi il capo dell’elmo di Scipio, antico generale 
                di una Roma imperialista e spietata (delenda Carthago)? 
                Fosse almeno una banale questione di retorica patriottica… ma 
                purtroppo, "dall’Alpe a Sicilia", l’Italia sta veramente 
                ricingendosi dell’elmo di Scipio, mediante una progressiva quanto 
                allarmante politica di militarizzazione del territorio.  
              
              Taranto 
              I 
                primi a sussultare, all’inizio del nuovo anno, furono i tarantini, 
                quando domenica 11 gennaio il "Corriere del Mezzogiorno" 
                (allegato locale del "Corriere della Sera"), in un articolo 
                di Nazareno Dinoi, dava notizia dell’intenzione di aprire una 
                nuova base militare (Taranto è ricca, ne possiede già 
                due: una navale e l’altra aeronautica), questa volta USA, per 
                cui sarebbero già stati investiti 600 milioni di dollari. 
                Notizia peraltro supportata dall’autorevole dichiarazione del 
                vicepresidente della Commissione Difesa della Camera, on. Ostillio, 
                che giudicando positivamente il progetto lo ha definito "una 
                fortuna per l’economia tarantina". In realtà, 
                secondo A. Marescotti, presidente della rete telematica Peacelink: 
                "il superprogetto militare Usa rischia di provocare a 
                Taranto la fine di ogni prospettiva commerciale e turistica", 
                perché la mitilicoltura e la pesca, che sono parte considerevole 
                dell’economia tarantina, avrebbero il futuro segnato da una spada 
                di Damocle radioattiva; perché secondo il "Piano di emergenza 
                per le navi a propulsione nucleare" ogni qualvolta ci siano esercitazioni 
                militari la Capitaneria di Porto è tenuta a sospendere 
                il transito mercantile; e perché l’area su cui verrà 
                costruita la base (in località Chiapparo) è in realtà 
                un sito archeologico, dove si trova un villaggio neolitico. Perciò 
                – continua Marescotti – "a Taranto rimarrà in eredità 
                un solo futuro certo: quella di città a rischio nucleare 
                e di bersaglio per devastanti azioni terroristiche. Ricordiamo 
                che tutti i sommergibili americani sono a propulsione nucleare… 
                Gli americani andarono via da Taranto all'inizio degli anni sessanta 
                dopo aver installato intorno a Gioia del Colle trenta missili 
                Jupiter a testata nucleare, ognuna della potenza pari a 100 volte 
                quella di Hiroshima. Due di quei missili rischiarono di esplodere 
                a causa di fulmini…". Ma c’è di più. La 
                denuncia di Marescotti continua: "La notizia conferma 
                e arricchisce con nuovi elementi quanto già PeaceLink aveva 
                scoperto il 20 settembre 2000 sul sito del Pentagono e cioè 
                che Taranto era diventata il nodo telematico del sistema C4i americano, 
                un sistema di coordinamento e spionaggio militare che collegherà 
                la base navale direttamente alla Us Navy oltre Altantico (precisamente 
                il Navy Center for Tactical System Interoperability che ha base 
                a San Diego in California), scavalcando la catena di comando Nato. 
                La notizia - data in esclusiva nazionale da PeaceLink - aveva 
                suscitato da una parte un'interrogazione parlamentare del senatore 
                Semenzato (componente di una commissione difesa che era completamente 
                all'oscuro della faccenda) e dall'altra le impacciate smentite 
                dell'on.Minniti e della Marina Militare; smentite che rasentavano 
                il grottesco essendo il comunicato di PeaceLink supportato da 
                una pagina web ufficiale del Pentagono. Si è poi scoperto 
                sulla stampa specializzata che il sistema C4i coinvolge anche 
                la portaerei Garibaldi". Nella peggiore delle ipotesi, 
                ai tarantini non rimarrebbe nemmeno la consolazione di un possibile 
                risarcimento, infatti in caso di incidente o disastro i trattati 
                bilaterali Usa-Italia non consentono alcuna azione penale italiana 
                verso i militari Usa, come ha dimostrato la tragedia del Cermis. 
              
              Arcipelago 
                della Maddalena 
              Altra 
                spiaggia, stesso male. Era il 17-18 novembre 2003, nei giorni 
                immediatamente successivi all’incidente occorso al sommergibile 
                statunitense Hartford (25 ottobre), quando un istituto di ricerca 
                francese, il CRIIRAD (Commission de Recherche et d’information 
                Indépendantes sur la Radioactivité), effettuava 
                dei rilevamenti nelle acque dell’arcipelago sardo della Maddalena. 
                Dai dati, ora pubblicati, si rileva che in alcuni campioni di 
                alghe, prelevati nella zona dell’incidente, la concentrazione 
                di Torio 234 (un elemento della catena dell’uranio 238 nonché 
                componente del combustibile nucleare che alimenta i sommergibili) 
                si attesta tra i 3900 e i 4700 becquerels per kg, quando i valori 
                normali non dovrebbero superare qualche decina di Bq/Kg. Si tratta 
                dunque di valori esageratamente superiori al livello tollerabile, 
                che tuttavia non è possibile confrontare con quelli precedenti 
                all’incidente dell’Hartford perché le autorità italiane 
                e statunitensi non hanno mai reso noto il risultato delle rilevazioni 
                periodicamente effettuate nelle acque della Sardegna. L’on. Mauro 
                Bulgarelli ha perciò deciso di presentare un’interrogazione 
                parlamentare sulla vicenda, ritenendo che: "L’abnorme 
                presenza di uranio 238 e suoi derivati potrebbe infatti anche 
                essere conseguenza dell’attività dei poligoni militari 
                disseminati nell’isola, nei quali vengono utilizzati proiettili 
                all’uranio impoverito nelle esercitazioni o nelle dimostrazioni 
                organizzate dai vari fabbricanti di armi". Per tutta 
                risposta, "il Governo ha autorizzato l’ampliamento della 
                base di Santo Stefano, che da oltre trent’anni deturpa l’ambiente 
                naturale dell’isola e presso la quale stazionano abitualmente 
                sommergibili a propulsione nucleare come l’Hartford". 
                "E’ inaccettabile - conclude Bulgarelli - che la 
                2° flotta Usa se ne vada a zonzo nel nostro mare e lo usi per 
                compiere pericolose esercitazioni belliche". "Come 
                denunciato da Giacomo Sanna, presidente del Partito Sardo d’Azione, 
                sull’isola esistono solo 5 centraline adibite al rilevamento 
                della radioattività ma a causa della loro vetustà 
                non sono in grado di riscontrare la presenza di Torio 234". 
                Ancora si discuteva su questo, quando il 20 gennaio è giunta 
                la notizia di una gravissima fuoriuscita di olio combustibile 
                che ha interessato lo specchio d’acqua tra il porto e il litorale 
                est in direzione di Caprera. "Dalle prime notizie sembra 
                che il combustibile sia fuoriuscito nella zona di Cala Chiesa, 
                nei pressi delle Scuole CEMM (Corpo Equipaggi Marittimi Militari), 
                ma ricordo – precisa Bulgarelli - che l’intera isola è 
                letteralmente disseminata di depositi di combustibile, scavati 
                nella roccia, come quelli gestiti dalla Nato, a poche centinaia 
                di metri dalla Nave Uss Emory Land, ospitante ben 34 missili a 
                testata nucleare Cruise Tomahawk e ormeggiata nel porto di Santo 
                Stefano. Oltre al rischio di perdite o di scarichi clandestini, 
                esiste la possibilità che l’esplosione di uno di questi 
                depositi possa coinvolgere gli armamenti nucleari presenti nel 
                porto, con conseguenze catastrofiche per la popolazione". 
                 
              
              Camp 
                Darby – Pisa 
              Risalendo 
                le coste del Bel Paese, giungiamo dalle parti di Pisa, precisamente 
                a Camp Darby… nome un po’ yankee per essere italiano e difatti, 
                in un certo senso, lì non è più Italia. Si 
                tratta di una base USA, che ricopre la bellezza di mille ettari 
                di litorale tirrenico e custodisce il più grande arsenale 
                statunitense all'estero. Per questo motivo gode di una sorta di 
                extraterritorialità e lo stesso governo italiano non è 
                legittimato a "metterci il naso". Ancora una volta peschiamo 
                dalle autorevoli colonne del Corriere della Sera, per essere 
                al di sopra di ogni sospetto. Il 13 gennaio 2003, un articolo 
                a firma di Gianluca Di Feo riportava il risultato delle ricerche 
                svolte da una fondazione della Virginia (la GlobalSecurity.org) 
                effettuate su "documenti che erano di libero accesso fino 
                all'11 settembre 2001. Alcuni dei dossier da loro consultati sono 
                stati secretati dopo l'attentato alle Torri Gemelle…". 
                Scorrendo il rapporto, Di Feo ha così spulciato qualche 
                numero: "Ventimila tonnellate di munizioni per artiglieria, 
                missili, razzi e bombe d'aereo con 8.100 tonnellate di alto esplosivo 
                ospitate in 125 bunker. E, ancora, gli equipaggiamenti completi 
                per armare una brigata meccanizzata: 2.600 tra tank, blindati, 
                jeep e camion. Nella lista ci sono tutti i migliori sistemi dell'esercito 
                statunitense, inclusi 35 carri armati M1 Abrams e 70 veicoli da 
                combattimento Bradley… materiali bellici del valore di due miliardi 
                di dollari, missili e ordigni esclusi". Inoltre: "nei 
                giorni del Natale 1998, alla vigilia del conflitto balcanico, 
                sui moli tirrenici sono sbarcate 3.278 cluster bomb: i congegni 
                a frammentazione, micidiali e delicati anche nei traslochi". 
                Le cluster bomb sono quegli ordigni a frammentazione che in caso 
                di mancata esplosione a contatto col terreno diventano, di fatto, 
                mine antipersona, bandite dalla legge italiana il 24 ottobre 1997, 
                dopo che il nostro paese aveva sottoscritto la "Convenzione 
                internazionale per la messa al bando dell’uso, lo stoccaggio, 
                la produzione ed il trasferimento di mine antipersona e per la 
                loro distruzione". Con una rapidità che ci onora – 
                dopo in verità esserne stati tra i principali costruttori 
                a livello mondiale – nel 2002, con un anno d’anticipo sulla scadenza 
                prevista, l’Italia aveva terminato di distruggere le mine stoccate 
                nei suoi depositi e riconvertito le fabbriche che le producevano. 
                A Camp Darby invece… ma lì, in piena Toscana, non è 
                più Italia. Complessivamente "la capacità 
                dei magazzini nel 1999 è stata certificata per contenere 
                32.000 tonnellate di ordigni. Una santabarbara impressionante, 
                gestita da un reparto - il 31° Squadrone munizioni - che ha un 
                simbolo abbastanza infelice: il profilo della penisola italiana 
                disegnato su una vecchia bomba con la miccia accesa". 
                Ma ad impressionare di più è la rivelazione di un 
                gravissimo pericolo, corso appena quattro anni fa e di cui non 
                si era avuta notizia: "Nel maggio 2000 pezzi di cemento 
                cominciano a cadere dal soffitto sulle armi e i genieri fanno 
                scattare l'allarme. Con cautela estrema tra giugno e luglio vengono 
                sgomberati dodici bunker, contenenti 100 mila ordigni con 23 tonnellate 
                di esplosivo ad alto potenziale. L'operazione viene descritta 
                come delicatissima dagli stessi esecutori che l'hanno realizzata 
                utilizzando robot telecomandati: nella loro rivista la chiamano 
                "un piccolo miracolo". Nessun pericolo, quindi. Ma anche 
                nessuna informazione alle nostre autorità: in genere in 
                Italia si fanno evacuare aree gigantesche solo per disinnescare 
                un residuato bellico con una carica di pochi chili. Che precauzioni 
                sarebbero state adottate per muovere migliaia di ordigni a ridosso 
                delle spiagge più affollate?". 
              
              Lombardia 
              E 
                finalmente arriviamo in Lombardia. Almeno qui dovrei sentire aria 
                di casa… invece, ancora una volta, sento puzza di guerra. Intanto 
                perché le rivelazioni riportate dal "Corriere del 
                Mezzogiorno" riguardano anche noi. I vertici militari USA 
                punterebbero infatti a "realizzare due grossi poli logistici 
                in Italia, uno per le truppe di terra a Solbiate, vicino Milano 
                e uno navale in Puglia, a Taranto". Da qualche giorno 
                poi è in fermento la galassia pacifista nostrana (persone, 
                associazioni e movimenti, laici e cattolici), per la notizia diffusasi 
                secondo cui la giunta regionale vorrebbe cancellare la legge n°6 
                del 1994, relativa all’istituzione della "Agenzia per la 
                riconversione dell’industria bellica". Un colpo non da poco 
                in una regione come la nostra che, grazie alle sue fabbriche bresciane, 
                può vantare tristi primati in tutto il mondo. Se poi il 
                provvedimento viene letto alla luce della modifica (che potremmo 
                meglio definire "abrogazione") apportata dal Parlamento 
                nazionale, lo scorso 3 giugno, alla legge 185 (quella che impediva 
                all’industria bellica italiana di vendere a paesi in guerra) e 
                lo inseriamo nel piano planetario di guerre pluridecennali, promesso 
                da Bush, non è chi non veda… Molte associazioni bresciane 
                si sono inoltre mobilitate in vista dell’apertura di EXA, la "Mostra 
                di armi sportive" che trova sede ogni anno nella "leonessa 
                d’Italia", e lanciano un nuovo appello-denuncia: "EXA 
                viene pubblicizzata come Mostra di armi sportive ed accessori. 
                Tuttavia, visitandola, abbiamo potuto constatare di persona come 
                - insieme a fucili da caccia, richiami, reti, riviste venatorie, 
                abbigliamento sportivo, ecc. - siano esposti fucili che, pur non 
                essendo classificati come "armi belliche", sono però 
                utilizzati nei conflitti che insanguinano mezzo pianeta, articoli 
                antisommossa destinati alle polizie di tutto il mondo e (in grande 
                quantità) pistole, principalmente per la difesa personale, 
                insomma un campionario che certamente nulla ha a che fare con 
                lo sport… Vi chiediamo allora - e ve lo chiediamo per tempo - 
                di lavorare perché si possa modificare il Regolamento della 
                prossima eventuale edizione di EXA, in direzione di una stretta 
                coerenza con quanto dichiarato nel marchio promozionale: Mostra 
                di armi sportive ed accessori. Se EXA diventerà effettivamente 
                quella mostra che i suoi difensori dichiarano sia, la nostra critica 
                - ferma e profondamente convinta - certo non cesserà ma 
                per tutti la posta del confronto sarà ben diversa. E ben 
                diversi i valori in gioco."  
              
              Quale 
                politica? 
              Gli 
                esempi non sarebbero certo finiti, così come non sarebbe 
                finita la nostra via crucis virtuale per le basi militari in Italia, 
                ma questo è solamente un articolo, già troppo lungo. 
                Ci resta appena lo spazio per sottolineare che quanto abbiamo 
                segnalato (nulla di nuovo - per carità - nessun scoop: 
                solo un po’ di dati già pubblicati, ma forse non proprio 
                a conoscenza di tutti) comporta dei costi – sociali - che si ripercuotono 
                sotto forma di tagli anche sui bisogni relativi ai diritti fondamentali 
                delle persone. Così mentre vengono sempre più ridimensionati 
                i bilanci della sanità e della scuola (pubblica), la Campagna 
                "Sbilanciamoci" (promossa da una trentina di associazioni 
                di diversa estrazione, per lo studio della legge finanziaria e 
                per avanzare proposte alternative di spesa del denaro pubblico: 
                www.sbilanciamoci.org) ci segnala che al 10 ottobre 2003 (passibile 
                quindi di qualche variazione successiva, non tale però 
                da snaturarne la portata) la previsione di spesa per la Difesa 
                ammontava a 1 miliardo e duecento milioni di euro; con un incremento 
                di 292,5 milioni di euro (+ 1,5%) rispetto al 2003; specificando 
                inoltre che "com’è successo fino ad adesso, le 
                missioni vengono poi finanziate con nuovi decreti ad hoc, e mai 
                con i fondi del Bilancio della Difesa". "Da ricordare 
                tra l’altro che in Finanziaria si stabilisce il blocco delle assunzioni 
                nella Pubblica Amministrazione per il 2004 "fatte salve quelle 
                connesse con la professionalizzazione delle Forze armate"". 
                 
              
              Creativi 
                per la Pace 
              Di 
                fronte a tale scenario, sorge ancora più impetuosa la domanda 
                della responsabilità collettiva: "ma noi cosa possiamo 
                fare?". Da parte mia, risponderei semplicemente: scateniamo 
                la creatività! A nessuno tocca formulare ricette universalmente 
                valide: sarebbe un’imperdonabile sciupio di quella miriade di 
                idee, iniziative, slanci che nascono quando ciascuno pensa con 
                la propria testa e si confronta con gli altri. Ed è quello 
                che avviene ogni giorno nella vita dei movimenti, delle associazioni, 
                delle campagne… quello che speriamo avvenga al più presto 
                in tutte le nostre case, comitati di quartiere, città. 
                 
              
              Osare 
                la Pace per fede 
              Da 
                cristiani, è certamente venuto il momento di mettere in 
                pratica l’esortazione (carica di valenza etica e perciò 
                vincolante per il credente) del grande teologo protestante, Dietrich 
                Bonhoeffer, morto in un lager nazista: "osare la Pace per 
                fede". Come ad Abramo fu chiesto di non limitarsi al buon 
                senso, ma di uscire verso un paese sconosciuto, fidando ciecamente 
                nella promessa di Dio; come a Pietro e agli altri fu chiesto di 
                riprendere il largo per tornare a pescare, in pieno giorno, contro 
                ogni logica che veniva dall’esperienza, rischiando l’onore, sulla 
                parola di Gesù… anche a noi è chiesto di osare la 
                Pace, oltre ogni calcolo, prudenza, convenienza… sulla parola 
                del Risorto!  
              
              Ridestiamo 
                l’Italia 
              Da 
                pochi giorni abbiamo celebrato il "giorno della memoria": 
                a fronte dei racconti sofferti e perciò sacri dei sopravvissuti 
                (vera Bibbia dei nostri giorni), abbiamo ascoltato anche tante 
                parole cariche di mera retorica da parte di quanti, non sapendo 
                distinguere tra il semplice "ricordare" ed il "fare 
                memoria", non sanno nemmeno trarre da quella tragedia insegnamenti 
                validi per l’oggi. Quante volte, riferendoci a quegli anni, abbiamo 
                parlato di "sonno della ragione" e della coscienza, 
                da cui finalmente ridestati - come Popoli delle Nazioni unite 
                - abbiamo fondato l’ONU per "salvaguardare le generazioni 
                future dal flagello della guerra"?… Ebbene, Fratelli d’Italia, 
                ridestiamo l’Italia, perché qui, adesso, qualcuno ha 
                di nuovo sonno. 
              
              Alberto 
                Vitali  
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