Poveri o impoveriti?

                                                                    



di Emma Nuri Pavoni

La conclusione alla quale arrivò la Conferenza Europea sullo Sviluppo riunita a Parigi lo scorso anno fu demoralizzante. Il mondo si avvia verso un ecatombe sociale per l’impoverimento accelerato nel quale stanno precipitando crescenti masse di popolazione mondiale; le cause di ciò sono principalmente due: il riconosciuto fallimento dei metodi fino ad ora applicati e la tremenda difficoltà per trovarne altri che invertano questa situazione.

Leggendo e rileggendo le statistiche non ci si può non chiedere il perché si è giunti a questa situazione e se si può realmente fare qualcosa per invertire la tendenza di questa apparentemente inarrestabile marcia verso la miseria.

Le diverse spiegazioni che nel corso degli anni, fondamentalmente dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, sono state fornite per giustificare l’impoverimento sono ricorse a una o più di queste principali linee d’analisi: 1) carenze etnico-culturali delle zone/paesi poveri/sottosviluppati che hanno impedito e impediscono di abbandonare il loro stato di prostrazione economica e sociale, 2) attitudini colonialiste e imperialiste che i paesi arricchiti svilupparono dal XVI secolo, 3) le caratteristiche proprie del sistema capitalista che ostacolano e impediscono la crescita e lo sviluppo, a partire da quando l’evoluzione economica e sociale ha oltrepassato un punto che per questi paesi e queste zone si trasforma in "di non ritorno".

Distribuzione del reddito

C’è un aspetto che non deve essere ignorato e che condiziona qualsiasi stima della povertà che voglia approssimarsi alla realtà: la distribuzione del reddito sul nostro pianeta non ha cessato di peggiorare da quando il processo di decolonizzazione è iniziato.

A livello mondiale la proporzione della ricchezza tra ricchi e poveri che nel 1913 era di 11/1, passò al 72/1 nel 1992; più dettagliatamente, la proporzione del 20% più ricco della popolazione mondiale che nel 1960 era di 30 volte quella del 20% più povera, passò a 61 volte nel 1995 e 74 nel 1999.

E’ certo che durante la Guerra Fredda e anche in seguito ci furono conflitti armati e disastri naturali che hanno influito al degrado delle condizioni di vita di vasti settori della popolazione mondiale, però non sembrano essere questi gli unici colpevoli dell’evoluzione crescente della povertà e della miseria mondiale.

Nel capitalismo il reddito personale è conseguenza di due fattori fondamentali: il valore generato da ogni individuo e le rendite dirette o indirette favorite dagli stati; inoltre, la distribuzione del reddito mondiale è, in gran parte, riflesso della distribuzione delle rendite nazionali. D’altra parte, le distribuzioni delle rendite zonali e mondiali viene assoggettata alle politiche macroeconomiche degli stati e, in particolare, da quelle degli stati economicamente più potenti così come dall’orientamento delle istituzioni economiche internazionali.

Dopo seconda guerra mondiale le possibilità di crescita furono orientate nel privilegiare il reddito personale crescente e basando la crescita sul consumo. A seguito di ciò, le possibilità dei paesi poveri crebbero: ogni volta erano necessarie più materie prime e più prodotti derivati da queste, però diminuirono in quanto gli investimenti necessari per ottenere i beni di consumo si andarono sofisticando e diminuendo, proporzionalmente, la quantità di beni non di capitale necessari.

La nuova economia non ha fatto altro che accelerare questa situazione, introducendo un nuovo elemento: si cerca l’incremento continuo della produttività ma contemporaneamente si vogliono ridurre i costi e aumentare la quota di mercato. Ciò è possibile nella misura e come conseguenza di una diminuzione del ruolo degli Stati.

I paesi impoveriti del mondo hanno visto diminuire la loro importanza e il loro peso nell’economia mondiale, vale dire, hanno visto diminuire la necessità che avevano di loro i paesi arricchiti.

In altre parole, le produzioni, le abilità e le conoscenze dei poveri sono sempre meno necessarie per generare la rendita mondiale perché il valore, così come il sistema lo chiede, che questi poveri sono capaci di generare è minore, di conseguenza lo sono anche le loro remunerazioni: insieme a ciò, le possibilità di aiuti che potrebbero correggere questa situazione tendono a diminuire, in base alla ricerca accelerata dell’efficienza da parte del sistema.

Per tutti questi fattori, non è esagerato pensare che, in termini umanistici, il mondo impoverito si dirige un modo accelerato verso un ecatombe.

Secondo l’ultimo rapporto fatto conoscere dal Banca Mondiale, relativo all’anno 2000-2001, in un momento di ricchezza senza precedenti per molti paesi, la breccia tra i 20 paesi più ricchi e i 20 paesi più poveri si è moltiplicata per due negli ultimi 40 anni. Dallo stesso si ricava una definizione della povertà tremendamente eloquente ma non per questo ampiamente conosciuta: "essere poveri è avere fame, non avere un tetto e vestiti, essere malato e non essere curato, essere analfabeta e non riceve istruzione; questo significa grande vulnerabilità verso le avversità e spesso subire maltrattamenti ed esclusione dalle istituzioni", ciò significa, essere privi di tutte le risorse che si considerano basilari alle quali deve far fronte ogni organizzazione economica predisposta. Il rapporto indica che questa miseria cresce contemporaneamente alla crescita della ricchezza mondiale, le connessioni internazionali e la capacità tecnologica. L’America Latina e Caribe, con una crescita dei poveri intorno al 20%, l’Europa dell’Est e le vicine repubbliche ex sovietiche, che hanno visto moltiplicare per venti il numero dei poveri, e l’Africa Subsahariana, sono le regioni del mondo dove cresce in maniera più significativa la miseria. Anche le regioni dell’est dell’Asia, il Magreb ed il Medio Oriente soffrono di debole retrocessione macroeconomica.

Non cessa d’essere un’ipocrisia, degna di chi deve giustificare un ruolo indegno, chiamare progresso contro la miseria un semplice abbassamento dal 28% al 24% del numero di coloro che nel mondo sopravvivono con meno di un dollaro al giorno, o indurci a stabilire questa povertà con il dato di coloro che ricevano meno di 2 dollari al giorno. Coloro che ricevono 3,4,5,6,… dollari al giorno – anche senza contare il prezzo del paniere di ciascun paese – non dovrebbero essere contabilizzati come poveri avendo una rendita procapite che non giunge a quelle 6.000 medie che hanno tutti gli abitanti del mondo e molto meno di quelle 9.000 o 10.000 che consideriamo basilari per "vivere bene"? E non cessa d’essere un cinismo superlativo pretendere che coloro che hanno organizzato l’economia per aumentare il lucro siano i protagonisti dei "cambiamenti istituzionali e sociali" che insieme alla "crescita economica" sarebbero necessari per "ridurre la povertà alla metà entro l’anno 2015" secondo le proposte avanzate dalla Banca Mondiale, oggetto attuale di una campagna di pulitura dell’immagine che deve far riflettere tutti coloro che lottano per la giustizia.

  • Le guerre e i conflitti interni avvenuti nel decennio tra il 1990 e il 2000 obbligarono 50 milioni di persone ad abbandonare i loro luoghi d’origine.
  • Cento milioni di bambini vivono e lavorano nella strada.
  • Quasi 18 milioni di persone nel mondo muoiono ogni anno di malattie infettive.
  • Circa 1 miliardo e 200 milioni di persone sopravvivono con meno di un dollaro al giorno.
  • Ci sono più di dieci milioni di rifugiati e cinque milioni di sfollati.
  • Ogni anno ci sono nel mondo 40 milioni di nascite che non vengono registrate.
  • Tra 85 e 115 milioni di bambine e donne hanno subito qualche forma di mutilazione genitale.
  • Più di 30.000 bambini muoiono ogni giorno a causa di malattie che nella maggior parte potrebbero essere evitate.
  • La ricchezza sommata delle 200 persone più ricche del mondo raggiunse il miliardo di dollari nel 1999, dieci volte di più della somma delle rendite dei 582 milioni di abitanti dei 43 paesi meno sviluppati. Una gran parte della ricchezza mondiale.
  • I conflitti armati ferirono più di 6 milioni di persone nella decade ’90.


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