La coscienza credente
di fronte alla legge



"Una legge immorale nessuno deve adempierla…": tuonava l'Arcivescovo Romero, in quel vespero del suo martirio, invitando i soldati a disobbedire agli ordini iniqui dei superiori, per ossequiare solamente la propria coscienza. Parole forti, coraggiose, che avrebbe pagato con la vita… ma anche, in realtà, concetti ovvi, all'apparenza scontati. Chi infatti potrebbe contestare una simile affermazione? Quale giurista o quale politico potrebbe non dirsi d'accordo e giudicarla incompatibile agli ordinamenti democratici nazionali e internazionali? E quale canonista o alto prelato potrebbe trovarla difforme ai dettami della Legge Divina o al Codice di Diritto Canonico? In teoria per lo meno, tutti dovrebbero essere d'accordo; la realtà, si sa, è tutta un'altra cosa… Soprattutto quando entrano in gioco interessi di parte, della parte "giusta": la nostra, quella dei nostri amici, alleati o benefattori. Il problema assume un aspetto particolare nella nostra epoca, perché non solo la concezione moderna dello Stato laico fa sì che esso legiferi indipendentemente dai principi morali di qualsiasi religione, ma la composizione pluriculturale e multireligiosa della società rende la sua autonomia ancor più necessaria per garantire il rispetto delle libertà di ciascuno. D'altra parte, proprio questo aspetto può condurre i singoli credenti e le comunità religiose a fare i conti con leggi che violino gravemente i valori fondamentali delle loro fedi. Soprattutto in presenza di leggi che non rispettino nemmeno quei principi basilari di solidarietà e umanità maturati dalla coscienza collettiva in anni di tradizione comune e, dettate unicamente da meschini interessi economici, calpestino persino i diritti più elementari, maturati nei secoli dalla cultura occidentale. Così ogni giorno assistiamo sempre più esterrefatti alle iniziative legislative, in materia di immigrazione, di una classe politica che concepisce il valore della vita - di migliaia di persone - soltanto in termini di forza lavoro e redditività, quale mezzo da usare e gettare, ignorando qualsiasi considerazione di ordine umano e sociale. Non intendo inoltrarmi in una analisi giuridica o politica del progetto di legge - cosiddetto Fini-Bossi - sull'immigrazione, quanto piuttosto interrogarmi sulla posizione che di fronte ad esso deve assumere la coscienza credente cristiana e, di conseguenza, su quali atteggiamenti concreti di obbedienza o disobbedienza civile possa assumere. Al cristiano, e al cattolico in particolare, non mancano certo punti di riferimento: le Scritture, i Padri della Chiesa e la tradizione del Magistero ecclesiastico sono ricchi di riflessione e insegnamenti in materia. Non potendo fare un excursus esaustivo, mi limito a rileggere alcuni passi fondamentali dell'Enciclica Populorum Progressio, di papa Paolo VI: per celebrarne il 35° anniversario che ricorre proprio nei giorni in cui scrivo, essendo stata pubblicata il 26 marzo 1967, e perché il tempo trascorso ci mette al riparo dalle solite obiezioni. Generalmente infatti per disattendere un insegnamento di tale portata si invocano o le condizioni temporali e sociali completamente mutate o la necessità di un lasso di tempo sufficiente per poterlo approfondire: ebbene 35 anni sono decisamente pochi per invocare un cambiamento epocale ma un tempo congruo per averlo assimilato! Papa Montini, dunque, all'indomani del Concilio Vaticano II volle tener fede ad una promessa fatta ai padri conciliari: raccogliere in un documento la grande riflessione che aveva impegnato parecchi di loro in quegli anni e veniva identificata con l'espressione "Chiesa dei poveri" dalle parole con cui Giovanni XXIII aveva annunciato il Concilio nel radiomessaggio dell'11 settembre 1962: "La Chiesa si presenta qual è e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri". Mantenne la promessa e l'enciclica che pubblicò non fu semplicemente un'esortazione alla carità e alla promozione della giustizia, ma un'analisi precisa sulle cause economiche e le responsabilità politiche della povertà, nonché un giudizio sferzante e un "grido di angoscia" perché vi si ponesse rimedio. In questo modo il papa intendeva lanciare un chiaro appello ad un rigoroso impegno sociale e politico, rivolto alla comunità cristiana, alle istituzioni civili e ad ogni uomo di buona volontà. Da allora nessuno che voglia professarsi cattolico ed essere in buona fede può ignorarla sul piano intellettuale e nella pratica personale o politica. Nella sua analisi il papa prende l'avvio da un giudizio critico - pesantemente negativo, perché lo ritiene la causa attuale e ultima della povertà - di quel sistema economico, oggi unico e quasi universalmente accettato, le cui regole ispirano e danno forma al suddetto progetto di legge: "Ma su queste condizioni nuove della società si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell'economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale liberalismo senza freno conduceva alla dittatura, a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell'"imperialismo internazionale del denaro". Non si condanneranno mai abbastanza simili abusi, ricordando ancora una volta solennemente che l'economia è al servizio dell'uomo" (PP 26). A tale pratica economica, il papa contrappone la visione cristiana dello sviluppo: "Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo. Com'è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: "noi non accettiamo di separare l'economico dall'umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere l'umanità intera" (PP 14). Ne trae quindi alcune conseguenze immediate: "Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario... Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad esso: non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria... Si sa con quale fermezza i padri della chiesa hanno precisato quale debba essere l'atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro che sono nel bisogno: "Non è del tuo avere, afferma sant'Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l'uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi". È come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, " il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento della utilità comune… Il bene comune esige dunque talvolta l'espropriazione se, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni, del danno considerevole arrecato agli interessi del paese, certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva... (PP 22-24) "Ciò significa che la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo disuguali da paese a paese: i prezzi che si formano "liberamente" sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa" (PP58). Quando venne pubblicata, la Populorum Progressio fu presentata dai mezzi di informazione come un'enciclica rivoluzionaria, "comunista": oggi certo non sarebbe più possibile, perché ormai ampi settori della sinistra sono ben lontani dal dire certe cose… Data tale analisi, il papa continua formulando un giudizio di conseguenza: "Una cosa va ribadita di nuovo: il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri. La regola che valeva un tempo in favore dei più vicini deve essere applicata oggi alla totalità dei bisognosi del mondo. I ricchi saranno del resto i primi ad esserne avvantaggiati. Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili (PP49)… "Quando tanti popoli hanno fame, quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nella ignoranza, quando restano da costruire tante scuole, tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi" (PP 53). Auspicando infine un mondo più solidale, passa quindi ad alcuni richiami concreti: "Noi non insisteremo mai abbastanza sul dovere della accoglienza - dovere di solidarietà umana e di carità cristiana - che incombe sia alle famiglie, sia alle organizzazioni culturali dei paesi ospitanti…La stessa accoglienza è dovuta ai lavoratori emigrati che vivono in condizioni spesso disumane, costretti a spremere il proprio salario per alleviare un po' le famiglie rimaste nella miseria sul suolo natale" (PP 67-69). Su questo punto papa Paolo poteva contare su validi precedenti in Pio XII e Giovanni XXIII: "Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell'interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse (cfr. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1952). Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l'appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale" (Pacem in Terris 12). Ora invece ci troviamo in presenza di una classe politica che ha fatto del liberismo la sua fede e del profitto personale e nazionale (?!) l'unico criterio di discernimento, dimostrando di ignorare completamente quei doveri di accoglienza, solidarietà e giustizia che invece il magistero dei papi - e tra loro soprattutto Giovanni Paolo II - indica quale fondamento della convivenza umana. Questo pone inevitabilmente il cristiano di fronte ad un grave dilemma tra il rispetto delle leggi dello Stato e l'obbedienza a Dio. Ancora una volta nel duplice aspetto dell'assenso intellettuale e, molto più, dell'agire pratico. Se dunque questo progetto legislativo diverrà legge dello Stato potremmo facilmente ritrovarci tutti ad avere a che fare con persone considerate "clandestine" e perciò "illegali", magari "criminali", pur sapendo che non starebbero facendo altro che godere di quel diritto loro assegnatogli dal Creatore. E allora che fare? Obbedire a Cesare o a Dio? Rischiare in proprio o chiudersi alla solidarietà, alle esigenze della giustizia, ai comandamenti di Dio? Il dilemma in realtà è solo di convenienza, non di coscienza, e lo si comprende bene, ogni domenica, quando ripetiamo con convinzione: "Credo in un solo Dio…". Consci che per questo potremmo essere "portati davanti ai tribunali degli uomini" (cfr. Mt 10,17), ma anche certi che un giorno ne risponderemo al cospetto di Dio: "ero straniero, mi avete ospitato?…" (cfr. Mt 25,35.43), non possiamo che fare tesoro della "prima enciclica morale della Chiesa" e rispondere con Pietro ai cesari e a tutte le autorità di oggi "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini!" (At 5,29)

Alberto Vitali



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