Quando 
                  gli inviati dell'arcivescovado arrivarono all'obitorio Isidro 
                  Menéndez, dove finivano tutti i cadaveri rinvenuti nelle 
                  strade, nei canali e nelle discariche di San Salvador, per ripetere 
                  su di lei quel gesto che molte volte ella stessa e Mons. Romero 
                  avevano compiuto in quel luogo, Marianela García Villas 
                  si era ormai compiutamente identificata con il suo popolo martoriato. 
                  
                Era 
                  stata ferita e catturata, pochi giorni prima, il 13 marzo 1983, 
                  durante un'operazione del famigerato battaglione Atlacatl, nella 
                  regione di Suchitoto, a nord della capitale, dove si era recata 
                  per verificare e testimoniare l'utilizzo di armi chimiche, da 
                  parte dell'esercito, ripetutamente denunciate dai contadini. 
                  A Marianela non lasciarono il tempo di documentarle, ma - quasi 
                  per una sorta di nemesi della storia - le desolanti conseguenze 
                  di quelle atrocità, in particolare dell'impiego del fosforo 
                  bianco e del napalm contro la popolazione civile, sono ancora 
                  ben visibili nell'ambiente e li abbiamo potuti costatare direttamente, 
                  nei diversi viaggi organizzati da Pax Christi Italia negli ultimi 
                  anni. 
                Marianela 
                  fu quindi condotta alla caserma della "Scuola di guerra", 
                  brutalmente torturata, uccisa e fatta ritrovare cadavere. Tre 
                  anni dopo l'assassinio di Mons. Romero, il regime salvadoregno 
                  voleva in questo modo spegnere l'altra "voce dei senza 
                  voce" che risuonava nel paese e all'estero; ma a differenza 
                  del martirio del suo arcivescovo, quello della giovane avvocata 
                  degli oppressi sarebbe rimasto impresso nella memoria di pochi, 
                  anzi pochissimi e più all'estero che in patria. Così, 
                  nemmeno quest'anno, in cui ricorre il XXV anniversario di quel 
                  sacrificio, il suo paese celebrerà alcunché di 
                  ufficiale e Marianela continua a scontare almeno tre grossi 
                  "difetti". 
                Il 
                  primo è quello di essere stata "donna", in 
                  un paese biecamente maschilista, come El Salvador e in un contesto 
                  internazionale che, quanto a parità dei diritti, spreca 
                  ancora più parole che azioni. Il secondo fu quello di 
                  essere "organizzata", come dicono là, per indicare 
                  coloro che in un modo o nell'altro facevano parte di qualche 
                  organizzazione sociale (contadini, operai, sindacalisti
). 
                  
                In 
                  un primo momento, costoro vennero considerati, a torto, "sovversivi" 
                  da parte del regime; poi in molti casi lo divennero effettivamente, 
                  confluendo nelle fila delle diverse organizzazioni rivoluzionarie, 
                  che nel 1980 si fusero nell'FMLN. In realtà, Marianela 
                  non partecipò mai a nessuna di queste organizzazioni. 
                  Agli inizi degli anni '70 aveva aderito alla Democrazia Cristiana 
                  salvadoregna ed era stata pure parlamentare per una legislatura, 
                  ma ne era uscita delusa; con alcuni amici aveva quindi fondato 
                  la Commissione per la Difesa dei Diritti Umani in El Salvador, 
                  di cui restò presidente fino al giorno della sua morte. 
                  
                Ma 
                  il maggiore Roberto D'Aubuisson, leader dell'organizzazione 
                  paramilitare di estrema destra ORDEN e riconosciuto mandante 
                  dell'assassinio di Mons. Romero, l'aveva già denunciata 
                  come guerrigliera, in un programma televisivo, fin dal 1980, 
                  giungendo persino ad attribuirle il grado ed il nome di "comandante 
                  Lucia"
 e, si sa, certe accuse sono dure a morire. 
                  Ricordo con viva impressione quando, alcuni anni fa a Milano, 
                  una giovane salvadoregna, che con il suo gruppo mi aveva chiesto 
                  di presentargli la figura di Mons. Romero, mi ha poi sinceramente 
                  confessato: "io ti credo, ma devi darmi il tempo di rielaborare 
                  tutto: mi hanno cresciuta raccontandomi che Romero fosse un 
                  guerrigliero". 
                Così 
                  anche per Marianela il pregiudizio sopravvive; soprattutto nella 
                  mentalità di chi è troppo "cattolico" 
                  o anti-rivoluzionario per rischiare di contaminarsi con dei 
                  "guerriglieri"
 oppure, al contrario, è 
                  troppo "rivoluzionario e materialista" per compromettersi 
                  con la memoria di una cristiana autentica, come fu Marianela. 
                  Questo, paradossalmente, è parte anche del terzo elemento 
                  che ancora oggi ne appanna la memoria: Marianela fu una vera 
                  cristiana, ma - per evidenti motivi - non un importante prelato, 
                  per quanto magari controverso come il suo arcivescovo, o un 
                  prete. Non fu nemmeno suora, così da potersi ricavare 
                  un angolo a margine dei nomi di quei sacerdoti e delle missionarie 
                  nordamericane, che essendo stati uccisi negli anni del ministero 
                  episcopale di Romero, furono associati al suo nome. 
                Marianela 
                  è stata e resta una "semplice" cristiana laica, 
                  ma di quella semplicità evangelica capace di arrivare 
                  alle estreme conseguenze del servizio e del martirio. Così 
                  oggi, in un paese nel quale molti si inorgogliscono per cose 
                  di cui francamente sarebbe meglio tacere, nessuno sembra gloriarsi 
                  di uno dei fiori più belli germinati da quella terra 
                  e irrorato dal sangue di centinaia di migliaia di anonimi contadini. 
                  
                Per 
                  fede ed esperienza però sappiamo che il seme caduto non 
                  muore, ma sempre misteriosamente fiorisce
 già lo 
                  vediamo negli occhi di migliaia di donne che, come lei e María 
                  Julia Hernández, oggi come ieri, costituiscono la forza 
                  vitale e la speranza di quel popolo. E' questo l'augurio che 
                  facciamo alle nuove generazioni che, in patria e all'estero, 
                  pur senza saperlo, stanno crescendo più libere e sicure, 
                  anche nel nome di Marianela.