Sebbene sia notte...

 



Una sera come tante, in una delle molteplici tavole rotonde sul tema della pace, o della guerra, che si susseguono in questo disgraziato periodo, a me è toccato di parlare per terzo, dopo due bravi relatori che già avevano sviscerato al meglio l'argomento. A quel punto mi sono chiesto: "e adesso di cosa parlo, per non cadere in inutili e noiose ripetizioni?" Tralasciando analisi politiche e tristi racconti di sofferenze, deliberatamente inferte a vittime innocenti dagli attuali conflitti e dai loro camuffati interessi, ho allora proposto - a dire il vero in maniera un po' confusa - un'intuizione che mi accompagnava da alcuni giorni, declinandosi con ogni pensiero: siamo tutti malati… per mancanza di speranza! Dall'11 settembre infatti, anch'io mi tormentavo sulle ragioni del terrorismo, non essendo così superficiale da credere che una motivazione religiosa, per quanto fanatica, possa giustificare i tragici avvenimenti di quel giorno. E a tormentarmi non erano tanto Bin Laden, o la "cupola" di cui è certamente espressione: è infatti fin troppo evidente quali siano i suoi interessi, quelli della sua famiglia e dei loro partner occidentali, alleati e nemici allo stesso tempo, nel colossale giro di affari che ruota intorno al petrolio. A provocare il mio sconcerto era - ed è - piuttosto il fenomeno dei cosiddetti "kamikaze", quelle persone che, imbottendosi di tritolo o pilotando un aereo, uccidono migliaia di innocenti, ma restano essi stessi vittime dei loro incomprensibili gesti. Per quanto in Italia abbiamo un triste passato di stragi, mai definitivamente spiegate, l'occidente e le sue "ragion di stato" non hanno mai convinto nessuno a farsi esplodere per il bene della causa. Ora invece siamo di fronte a persone disposte a morire con una sola certezza: non avere neanche la possibilità di sapere se sia servito a qualcosa il loro sacrificio. E - spiacente per coloro che vorrebbero risolvere il problema alla svelta, magari in uno dei tanti, banali e strumentali talk show televisivi - a me non basta, quale risposta, l'ipotesi del fanatismo o della follia. Con troppa frequenza e disinvoltura ricorriamo infatti a questa comodissima e risolutrice parola, per esorcizzare pensieri che turbano e rischierebbero di metterci seriamente in discussione. No, non mi basta pensare che queste persone siano pazze, come non credo che all'origine di tutto possa esserci un'esperienza religiosa, per quanto deviata e deviante. La religione al massimo può offrire una mistica, un supporto psicologico, ma la ragione ultima va' cercata altrove. Fu a questo punto che ascoltai la testimonianza della mamma di un giovane palestinese, che si era fatto esplodere in Israele. Nella sua disarmante semplicità, questa donna offriva col suo dolore quella che ritengo essere la chiave di lettura più vera. I poveri infatti sono sempre più vicini alla verità, non per questioni ideologiche, ma perché hanno tutto interesse a che venga a galla, che si riveli la realtà che li opprime. Così, tra le lacrime, rimproverando al figlio di averla ulteriormente angosciata per aver causato dall'altra parte, ad altre madri, il suo stesso dolore, spiegava: "quando ero giovane vivevamo nella miseria, ma avevamo speranza. Ora, a questi giovani manca persino la speranza; per questo diventano facili strumenti nelle mani di coloro che sanno approfittare della loro disperazione… Dei ricchi, che si muovono guerre per i loro interessi, ma a combattere - e a morire - mandano i figli dei poveri; mai i loro!". Ecco il cuore del problema, la vera "malattia mortale" per dirla con Kierkegaard: la disperazione! Una disperazione, o meglio una "mancanza di speranza", che all'estremo può portare a compiere gesti folli e criminali, nel disperato tentativo di aprire ad altri, ai propri popoli, una via che si ritiene ormai irreparabilmente preclusa per sé. Ma questa malattia, questa specie di "infermità esistenziale", non è una prerogativa dei paesi del cosiddetto "terzo mondo". Anche l'occidente, per motivi diversi, ne risulta colpito: le statistiche indicano un crescente ricorso a terapie di analisi, soprattutto tra le classi agiate di Europa e Stati Uniti. Alla fine di ottobre, Rigoberta Menchù, mi raccontava che, viaggiando negli USA con altri "Nobel per la pace", sono rimasti enormemente impressionati dalle farmacie, ormai prive di psicofarmaci e antidepressivi, dopo l'assalto degli ultimi mesi… E a queste considerazioni di ordine clinico, dovremmo aggiungerne altre di carattere più sociale e politico. Se le statistiche dicono il vero, nelle prime settimane dell'attuale conflitto circa l'80% degli statunitensi ed il 60% degli europei lo approvavano… Poiché è difficile pensare che tutte queste persone siano guerrafondaie per istinto o abbiano interessi particolari di tornaconto economico, mi sembra più verosimile ritenere che optassero per questa "soluzione" non riuscendo ad immaginare un modo diverso, non violento, rispettoso dei diritti di tutti, per risolvere questo genere di problemi; abituati a prendere per buone le verità della televisione non si rendono conto di come tali situazioni non siano impreviste ed imprevedibili - quasi fossero meteore cadute dal cielo - ma lungamente incubate da scelte egoistiche e prive di prospettiva politica internazionale. Scarsa è anche la loro fantasia così che non riescono ad immaginare alternative, non già per cattiva volontà, ma perché da tempo non coltivano il sogno di un mondo nuovo. Non riescono perciò a pensare che un mondo, "altro", giusto e solidale sia ancora possibile. Così, nel momento della paura, della confusione e dello smarrimento, cedono a "soluzioni" irrazionali ("riesce alieno alla ragione pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". Papa Giovanni XXIII - Pacem in Terris #10) e si affidano a chi si propone, mentendo, quale difensore della civiltà e delle libertà, senza curarsi degli innocenti che saranno colpiti, né delle conseguenze che ricadranno su tutti. Disposti a sospendere "per un attimo" i diritti dei più deboli - dei bambini, dei vecchi… - per ristabilire il "Diritto Internazionale", il fine è tornato a giustificare i mezzi, grazie alla di-sperazione in cui siamo caduti non avendo il coraggio di superare l'esiguo orizzonte dei nostri limiti. L'uomo, al contrario, realizza se stesso, in tutte le sue potenzialità, quando riesce a trascendersi e a trovare il proprio compimento in qualcosa o Qualcuno che sta "oltre a sé". Solo nell'incontro con l'altro, col diverso, possiamo completare la nostra persona e nella tensione verso un valore che ci trascende sublimiamo lo spirito. Le religioni indicano questo compimento nel rapporto con Dio. Le diverse ideologie nell'anelito al proprio ideale. In Europa, due grandi tradizioni assunsero in passato questo compito: i cristianesimi (cattolico e protestanti) da un lato, ed i marxismi, nelle loro diverse realizzazioni storiche e politiche, dall'altro. Oggi, dopo la caduta del muro di Berlino e la crisi di quel modello religioso, maggioritario ma formale - certamente anche poco evangelico -, l'uomo e la donna occidentali faticano a trascendersi nella speranza, a coltivare nuovi ideali, ad inseguire l'utopia di un mondo nuovo. Spesso sentendosi orfani e incapaci di guardare al futuro, si aggrappano all'immediato, all'effimero e questo toglie sapore alle cose e senso alla vita. Allora tutto diventa possibile: la fuga nell'alcol o nella droga, le morti del sabato sera, i riti satanici, le tragedie familiari… Il terrorismo e la civiltà occidentale, di conseguenza, si scoprono parenti stretti, fratelli di culla, più di quanto entrambi siano disposti ad ammettere… o, se preferite, si ritrovano ammalati dello stesso male. Questo tentai di dire quella sera: "prima del terrorismo e della guerra ci sta uccidendo la mancanza di speranza!". Con mio vero stupore, la gente reagì calorosamente, esprimendo anche sollievo per poter identificare ed esprimere questo grande bisogno. "Adesso che ha messo il dito nella piaga, deve darci una speranza!", mi rimbottò una signora. La richiesta era evidentemente esagerata, ma nei giorni successivi, ripensandoci, capii che aveva una sua legittimità. Tra i compiti del cristiano c'è infatti anche quello che chiamerei "la diaconia della speranza", il servizio della speranza. Dice Pietro nella sua prima lettera: "adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" . Certo, coi tempi che corrono anche per noi cristiani la speranza è una virtù tutt'altro che scontata, ma questo non ci esime dal nostro dovere di testimoniarla, perché, da qualche parte, in fondo al sacco del nostro cuore, sicuramente ne è stata posta abbastanza, per noi e per gli altri. Mi sono allora chiesto che ne è della mia speranza; come sia possibile coniugare questa caratteristica imprescindibile della nostra fede con tante fatiche e delusioni che - soprattutto per chi lavora abitualmente al servizio della pace - sembrano giunte a compimento in questi nuovi tempi di guerra. Ho sentito, più forte di ogni fallimento, la tristezza e l'amarezza di essere beffeggiati e guardati con sospetto persino dentro la Chiesa… e allora ho pensato al Crocifisso. Lui, il principe della pace: quale spettacolo ha contemplato dalla croce? Chi è stato più sconfitto di Lui? Chi aveva creduto alla sua predicazione? Solo allora mi sono reso conto che le sue delusioni, le sue sconfitte, in realtà sono le nostre, che per com-passione ha voluto assumere su di sé. Ma, a questo punto, già la notte è squarciata… come il velo del tempio. Perché la croce non è una fine, ma il principio di tutto. Gesù è il Risorto e nella sua resurrezione il Padre, Dio, attesta che Gesù non si era sbagliato, che il suo atteggiamento - quell'amore non violento che aveva comandato ai suoi: "amatevi come io vi ho amato" , sine glossa, senza "se" e senza "ma" - è la sola via possibile per l'umanità. Gesù Risorto inaugura un Regno che è "già e non ancora". "Non ancora" perché la storia raggiungerà il suo pieno compimento solo nell'eternità di Dio. "Non ancora" perché la vita che ci è stata promessa non si esaurisce qui e nessun gesto d'amore, né un solo attimo di dolore, andranno perduti con la morte. "Non ancora" perché la storia non è una barca alla deriva e a guidarla non sono i capricci dei potenti. Se Gesù Risorto è il fondamento della nostra fede, l'eternità è la prospettiva della nostra speranza. Una prospettiva che però non diventa alienazione perché è anche un "già". Un progetto storico da realizzare "qui ed ora" e per cui lottare contro la logica violenta del sistema. Per questo la comunità primitiva pregava ripetendo: "Maranatha, vieni Signore Gesù" . Vieni con la tua rassicurante presenza a riempire il nostro presente - "Ecco, Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" -, vieni a costruire con noi la storia, perché anche il nostro futuro possa essere in te. Dacci il tuo cuore per amare questa storia e i tuoi occhi per leggerla in modo nuovo... Forse anche per questo, negli ultimi giorni, mi sono ricordato di un libro , scritto da un amico teologo e sociologo, José Maria Vigil, in Nicaragua, all'indomani del fallimento dell'esperienza sandinista. L'autore, costretto a confrontarsi con la depressione di migliaia di militanti che avevano pagato caro quel sogno, per poco goduto e subito perso, individua nelle moderne scienze sociali (in particolare quelle che studiano la conoscenza ed il comportamento degli individui in un determinato contesto sociale) e nella pedagogia evangelica di Gesù, delle singolari convergenze. Sulla strada per Emmaus , il Risorto incontra due discepoli che se ne vanno tristi e delusi per tanti sogni frustrati dalla sua morte: "speravamo noi che fosse Lui…". E Gesù li interroga, li obbliga ad esternare, a dare un nome all'angoscia che si portano dentro, perché il male fintanto che resta indefinito appare più grande ed è per questo più pericoloso. Poi il Maestro si fa parola e li aiuta a rileggere quella stessa storia, comprese le loro drammatiche esperienze, da un'altra prospettiva. Li invita a dare un senso nuovo alle cose, e poco alla volta iniziano ad uscire dal buio motivi di speranza, a cui aggrapparsi, fino a quando ormai l'orizzonte tutto si rischiara e, senza perdere tempo, corrono a Gerusalemme, la grande città, pronti a loro volta ad essere terapisti di speranza per i fratelli. Questo è il compito al quale siamo chiamati in questa "ora spirituale" del mondo; ma è un compito collettivo, che dobbiamo svolgere insieme. Dobbiamo ricreare luoghi di ascolto, di confronto, di analisi delle diverse esperienze e della realtà globale. Dobbiamo aiutarci gli uni gli altri ad aprire gli occhi, per scorgere "i segni dei tempi", quei segni di speranza che anche ai nostri giorni non mancano… anzi brillano ancora più luminosi, perché "le stelle si vedono bene solo di notte" (P. Casaldáliga). E allora vorrei iniziare con voi a scrutare le stelle, meglio due stelle e una costellazione… E' solo un inizio, perché questo esercizio lo svilupperemo, poco alla volta, col contributo di tutti. Ma iniziamo da subito… Io penserei anzitutto alla presenza di Emergency, in Afghanistan, sotto le bombe, ed in particolare a Gino Strada. Sono un segno eloquente di come si possa essere occidentali senza omologarsi al "pensiero unico", agire controcorrente e offrire una testimonianza capace di farsi comprendere e creare consenso. Segno inoltre di come si possa essere "veri italiani" in maniera diversa da quella interpretata dalla maggior parte dei nostri politici e dalle più alte cariche dello stato. Perché in certi momenti una "prudente e saggia moderazione" è la peggiore delle complicità; e c'è più assunzione di responsabilità nel fasciare le ferite che a lanciare le bombe! Già don Milani, trentacinque anni fa, ricordava che "ormai l'obbedienza non è più una virtù" e che ciascuno deve sapersi assumere le proprie personalissime responsabilità di fronte alla propria coscienza, agli uomini e a Dio. Secondo e paradossale "punto luminoso": i "grandi" dell'economia, loro malgrado, devono riconoscere che così non si va da nessuna parte. Il governatore Fazio, dopo l'ultimo vertice del WTO, ha dichiarato che sebbene questo modello di globalizzazione abbia aumentato in termini assoluti la ricchezza nel mondo, ha anche aumentato il divario tra ricchi (sempre più ricchi) e poveri (sempre più poveri) e questo, a sua volta, ha determinato una situazione generale di insicurezza che deve necessariamente essere eliminata, mediante una più equa ripartizione delle ricchezze. Come e quando non si sa, ma è già qualcosa! Altri economisti parlano ormai di "Economia della paura" che destabilizza tutto il sistema dal momento che né la politica né il militare si mostrano in grado di superarla. Risultano così quanto mai profetiche le parole di un altro economista, Riccardo Petrella, che - con grande sensibilità e in tempi non sospetti - ammoniva: "la solidarietà è il miglior investimento". Infine, vorrei ricordare i due prossimi appuntamenti proposti dal Papa: il 14 dicembre, un giorno di digiuno e preghiera - in concomitanza con la fine del Ramadan islamico - per invocare da Dio il dono della pace. Anche le comunità ebraiche hanno dato la loro adesione. Ed il 24 gennaio, un incontro di preghiera per la Pace, tra tutte le religioni, ad Assisi. Lo spirito di questa esperienza, già vissuta il 27 ottobre del 1996, il Papa lo aveva ribadito lo scorso 30 ottobre, durante la recita dell'Angelus: "Non possiamo non ricordare che ebrei, cristiani e musulmani adorano Dio come l'Unico. Le tre religioni hanno, perciò, la vocazione all'unità e alla pace. Voglia Dio concedere ai fedeli della Chiesa di essere in prima linea nella ricerca della giustizia, nel bandire la violenza e nell'essere operatori di pace". Così, proprio quando il processo di pace e di riconciliazione tra le diverse religioni rischiava di essere seriamente compromesso da speculazioni politiche e ideologiche, ha invece ricevuto un impulso che ne accelera i tempi e lo arricchisce di valenze sociali e persino teologiche, inimmaginabili fino a poche settimane fa. L'elenco potrebbe continuare… ma, come dicevo, questa riflessione vuole essere solo un contributo iniziale per stimolare un ricerca comune dei "segni dei tempi", in vista di una diaconia della speranza. Vi invitiamo perciò a continuare con noi questo cammino sulla nuova Mailing List che Viator ha creato per essere sempre più strumento di condivisione, tra credenti e no, mendicanti di speranza e operatori di buone notizie. Ci confortano e spronano, in questa "ora", le parole che don Tonino Bello pronunciò ai tempi della Guerra del Golfo: "durante il diluvio mettiamo da parte le sementi". E poiché crediamo che le sofferenze di tante vittime - e le fatiche di tanti uomini e donne di pace - non saranno vane, siamo anche certi che il raccolto non mancherà, e questa volta sarà abbondante.

Alberto Vitali



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