Gli occhiali di Dio



Federica, con esempi molto semplici, spiegava ad un pubblico variegato la differente concezione tra giustizia retributiva e giustizia riparativa: "l’oggetto che osserviamo è lo stesso, ma dobbiamo cambiarci gli occhiali per guardarlo da un’altra prospettiva". Già, gli occhiali fanno sempre la differenza! La facevano, certamente, per l’ottico sognatore di De André, "spacciatore di lenti… perché le pupille abituate a copiare inventino i mondi sui quali guardare"; ma indubbiamente la fanno anche per noi. Al di là di ogni pretesa oggettività, infatti, la soggettività di cui siamo dotati, il nostro orizzonte di comprensione e le inclinazioni che ci caratterizzano giocano un ruolo fondamentale nel processo di conoscenza con cui ci rapportiamo alla realtà e ci permettono di superare la mera apparenza delle cose, per cogliere più a fondo qualche aspetto della loro essenza e potenzialità. Così una stessa situazione può spingere alcuni ad assumere un atteggiamento passivo e rassegnato, apparendo loro "normale e inevitabile", ma può motivare altri all’impegno e perfino alla lotta, risultandogli, al contrario, deprecabile e intollerabile. Allo stesso modo, una persona giudicata "irrecuperabile" dal comune - spesso spietato - buon senso, può invece essere aiutata a compiere un cammino di riscatto, da parte di chi sappia offrirle una mano, valorizzando quel residuo di umanità che sempre è possibile scovare in ognuno, per quando abbruttito possa apparire. Certo bisogna volerlo; e a questo proposito risultano quanto mai imprescindibili l’interesse, la determinazione ed il modo, assolutamente originale, con cui ciascuno guarda alla vita. Gli occhiali appunto!… Così, mentre Federica continua a parlare di percorsi riparativi, compiuti congiuntamente dalle vittime e dai loro aggressori, io non posso sottrarmi al fascino di pensare come tutto sarebbe diverso se questi stessi concetti, queste metodologie più volte sperimentate con successo nel micro, fossero impiegate anche su larga scala, quali criteri giuridici e strategie internazionali atte a salvaguardare l’esistenza dei popoli. Ma, ancora una volta, mi rendo conto che a fare la differenza, a rendere cioè più o meno realizzabili certi sogni, saranno proprio gli occhiali che vorremo metterci: per cambiare le cose infatti non basteranno occhiali normali, buoni solo per pupille abituate a copiare, ma lenti speciali, appositamente studiate per sguardi creativi… come quelle dell’ottico spacciatore, come lo sguardo di Dio! Già, a proposito: come sono gli occhiali di Dio?

Tempo di deserto

Non so, evidentemente, se Dio sia mai ricorso all’ottico, ma se qualcuno ha usato i suoi occhiali, per osservare il mondo da una prospettiva alternativa a quella del sistema, costui fu certamente Gesù di Nazareth. Non c’è pagina dei Vangeli che non lo riveli chiaramente. Tra le tante, ne scelgo una - tappa obbligata del cammino quaresimale – per cercare di scrutare i segni del nostro tempo con la lente che egli usò quel giorno. L’episodio viene descritto nel capitolo quarto dei vangeli di Matteo e Luca; molto più sinteticamente è accennato in Marco 1: Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Il contesto non fu certo casuale. Non soltanto perché il deserto aiuta a guardare le cose con gli occhi di Dio: essenziale per natura, obbliga a misurarsi con se stessi e col mistero che tutto avvolge; ma anche perché nella tradizione biblica viene costantemente ricordato quale luogo dell’innamoramento tra Dio e il suo popolo. Occasione sì di peccato (il vitello d’oro), ma soprattutto di ricerca e fedeltà. Solo più tardi, quando sarà finalmente entrato in possesso della terra, Israele cederà alla logica della ricchezza, che genera sfruttamento, oppressione e quell’idolatria che è infedeltà, ma fintantoché restò nel deserto riuscì più facilmente a discernere il sottile confine che passa sul crinale della tentazione e trasforma persino le cose buone in frutti del male.

Il pane rubato

"Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane" (Mt 4,4).

Procurarsi del pane, anche mediante un miracolo, non è peccato. Gesù lo avrebbe fatto almeno due volte nel corso della suo ministero, per sfamare rispettivamente cinquemila e quattromila uomini, senza contare le donne e i bambini, e tutti gli evangelisti ne danno testimonianza. Non solo: prima di lui anche il profeta Eliseo aveva compiuto lo stesso miracolo per sfamare cento persone, "secondo la parola del Signore". Il peccato non sta quindi nel procurarsi del cibo (dopo quaranta giorni di digiuno!), ma nel mangiarlo da soli. E’ infatti interessante osservare come in tutti i "racconti di moltiplicazione" venga riportato un particolare, tanto piccolo, da passare quasi inosservato, quanto significativo, da essere scrupolosamente conservato da ogni evangelista: Gesù compì il miracolo solo dopo aver comandato alla folla di sedersi sull’erba. Luca precisa inoltre che li fece sedere per gruppi di cinquanta… Nella prospettiva di Dio il pane va’ perciò con-diviso, mangiato assieme (da cui il significato etimologico della parola compagni: cum panis, che mangiano lo stesso pane). Per quanto esigente possa sembrarci, Egli non si accontenterebbe nemmeno se imparassimo a dividerlo in parti uguali e poi andassimo a mangiarlo ciascuno per conto proprio. Certo, sarebbe già un buon risultato: quantomeno canterebbero di vittoria tutti gli operatori del commercio equo e solidale… ma Dio non è per il fast food. Così non si stanca di ricordarci che Egli non ha creato l’uomo per mangiare, ma per mangiare insieme; e su questo proprio non ci siamo! Anzi poiché abbiamo avuto l’ardire di chiedere a Gesù i suoi occhiali, siamo ora costretti a constatare che nel frattempo la situazione è di gran lunga peggiorata. Non soltanto infatti, nell’ultimo biennio, alla turba degli affamati si sono aggiunte altre 27 milioni di persone, battendo così il nuovo triste primato mondiale di 840 milioni (dati FAO 2003); ma dobbiamo registrare ormai un’ulteriore emergenza che ha dell’incredibile: 1 miliardo e 700 milioni di persone già oggi non hanno accesso all’acqua potabile e si prevede che il numero possa salire a 3 miliardi (la metà dell’intera umanità) nell’arco di pochi decenni. Costatando che negli ultimi trent’anni è scomparso (sprecato) il 40% dell’acqua potabile presente sul pianeta, forse oggi il diavolo tenterebbe Gesù chiedendogli di trasformare il deserto in una sorgente.

Una religiosità evanescente

"Se sei Figlio di Dio, gettati giù…" (Mt 4, 5)

Il deserto non ha funzionato: troppo facile incontrasi con Dio. Così il diavolo decise di cercare un luogo più consono ai suoi obiettivi e condusse Gesù sul tetto del tempio: se non avrebbe perso la fede lì era proprio Figlio di Dio… L’invito questa volta è a compiere un gesto clamoroso: gettarsi dal pinnacolo per fare adepti con la forza seduttiva di un miracolo spettacolare. Ma qui pure l’unica cosa a precipitare è la fantasia del tentatore: per uno che avrebbe restituito la vista ai ciechi, fatto parlare i muti… risuscitato i morti, saltare dal pinnacolo del tempio non doveva rappresentare una grande occasione. Fallita quest’altra prova, il diavolo dovette però pensare di conservare l’idea per tempi migliori: nel corso dei secoli, si sarebbe abbondantemente rifatto, giacché, al di là delle apparenze, l’intuizione non era del tutto infondata. Buona cosa è la religione, ma non quando viene somministrata come oppio dei popoli… Non avrebbero certo aspettato 1800 anni per rendersene conto e tanto meno per utilizzarla! Anzi, la ricetta era bell’e pronta. Il Satana, buon conoscitore di Dio e del suo Messia, sapeva infatti bene che l’essere cristiani consiste nell’annuncio operoso del Regno (non già in una serie di pratiche sterili e soporifere come quelle dei farisei), nella dedizione ad una Causa perseguita con tutte le forze. Ma sapeva anche che – al contrario - gli umani spesso cercano nella religione un’esperienza consolatoria, una via di fuga dalla realtà, una serie di garanzie rassicuranti, magari esaltanti, con cui narcotizzare la noia o la paura dei giorni. Così si limitò a prendere tempo, conservando per i discepoli quella ricetta che non aveva funzionato col Maestro… E a distanza di secoli, guardando a ritroso la storia, non sembra aver fallito due volte; anzi quei maledetti ingredienti risultano tutt’altro che deteriorati, buoni come sono per cucinare il piatto forte di tutte le sette fondamentaliste. In primis quelle di reaganiana memoria che, utilizzate a fini politici in tutta l’America Latina, praticano una predicazione escatologica per incitare la gente a sopportare ogni forma di oppressione presente in vista della ricompensa celeste e a dipendere dai capi delle diverse comunità, anche per le scelte più importanti della vita personale e comunitaria. Se ciò è smaccatamente evidente nel caso delle sette, anche all’interno delle Chiese storiche sarebbe meglio non sottovalutare questa deriva spiritualita. Mi riferisco alla predicazione e alla prassi di taluni movimenti, tanto cattolici che protestanti, in cui spesso "cadono" le persone più fragili, soprattutto nei momenti difficili della vita, alla ricerca di facili consolazioni; o comunque persone di ogni genere, spinte dal desiderio di delegare ad altri (fosse anche lo stesso Dio) il peso della propria libertà e responsabilità. In questa logica, tutto quanto avviene sotto il sole è attribuito indistintamente all’imperscrutabile volontà di Dio, senza il minimo discernimento di quanto è invece frutto del peccato, e l’impegno storico del cristiano viene risolto in una preghiera disincarnata e deresponsabilizzante, che delega a Dio anche quanto toccherebbe fare a noi. Il tutto condito da un’atmosfera evanescente che sarebbe improprio chiamare col termine di "spiritualità", trattandosi piuttosto di una sorta di "confino nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo di gruppo con la panna montata delle canzonette religiose" (Tonino Bello).

La violenza del potere

"Tutti i regni del mondo con la loro gloria…tutte queste cose io ti darò…" (Mt 4,8)

Terzo e ultimo tentativo: il potere anziché la signoria. Ancora una volta la differenza è enorme, ma invisibile se letta con gli occhiali del mondo. Per Gesù non poteva essere un sogno proibito quello di ricevere la signoria su tutti i popoli: per questo era venuto, perché in lui si ricapitolassero tutte le cose. Nel discorso delle beatitudini, promise anzi di condividere con i miti questa eredità (Mt 5,5), dopo averla ricevuta a sua volta dalle mani del Padre - non da colui che è omicida fin dal principio - nel momento supremo della croce. Lì infatti si svela la vera natura della regalità di Cristo: il potere di colui che serve, lavando i piedi ai commensali e ripudiando la crudeltà che è connaturale ad ogni forma di violenza. Questo è certamente motivo di grande speranza per tutte le vittime della storia: alla fine i potenti (coloro cioè che avranno combattuto e ucciso, su scala industriale, per assicurarsi regni, petrolio, acqua…) saranno rovesciati dai troni, per innalzarvi gli umili. Ma allo stesso tempo è anche un chiaro, inequivocabile, indicatore stradale per chiunque voglia essere suo discepolo: altre vie non esistono!

Il catino di Pilato

Quasi senza accorgercene, siamo così arrivati alla settimana santa. In realtà tutta la vita di Gesù fu una grande settimana santa e anche la storia lo è: basterebbe guardarla con gli occhi degli oppressi per rendercene conto. Anzi, se davvero ci decidessimo a guardarla con gli occhiali delle madri afghane o dei padri iracheni, (copie perfette di quelli di Dio) ci accorgeremmo che forse è piuttosto un grande venerdì santo, nel quale continuamente andiamo a sbattere contro quella "sindrome da settimana santa" per cui ogni qualvolta si parte con l’Ulivo, se non proprio al crucifige, si arriva almeno al catino di Pilato. Qualcuno la chiama ragion di stato, per altri, più semplicemente, è una sventura. Così, ancora una volta, il dramma si va’ consumando: dopo mesi in cui stiamo flagellando quelle popolazioni, con il triste risultato che è sotto gli occhi di tutti, nel momento in cui si dovrebbe finalmente decidere di far prevalere la coscienza sul sonno della ragione, i cattolici impegnati in politica decidono di recitare fino in fondo un copione già visto: gli uni urlando il crucifige, gli altri infoltendo le fila del partito di Pilato. E poiché pare che i rametti d’ulivo scarseggino, tanto da non essere sufficienti per tutti i simboli, mi chiedo perché mai una buona volta (e a maggior ragione) non si decidano ad assumere quale insegne il catino e lo strofinaccio con cui l’antico collega tentò di lavarsi mani e coscienza.

La Nonviolenza, un segno dei tempi

A questo punto però papa Giovanni mi rimprovererebbe, per non aver ancora menzionato quello che è, senza dubbio, uno dei grandi segni positivi del nostro tempo: il crescente dibattito sulla scelta della Nonviolenza. E’ inoltre di questi giorni la notizia che un partito, per nulla cattolico e con alle spalle una grande tradizione di lotta, ha riconosciuto nella Nonviolenza un nuovo approdo della propria esperienza politica, per bocca dello stesso segretario nazionale che, tra l’altro, ha precisato: "non saprei pensare la nostra ricerca senza contributi come quello del movimento cattolico, come quello di Aldo Capitini e Danilo Dolci". Papa Giovanni, ne sono certo, gioirebbe di ciò e non esiterebbe ad indicarlo come già fece nella Pacem in terris a proposito dell’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, dell’ingresso della donna nella vita pubblica e del processo di decolonizzazione, tutte cose che certamente non rivestivano minore valenza politica. Questo dovrebbe stimolare noi cattolici a correre più velocemente su un terreno che, in realtà, dovrebbe risultarci molto più consono, poiché evangelico. Al contrario, temo invece che finirà per costituire un nuovo ostacolo, offrendo agli uni la possibilità di classificarla - e perciò squalificarla, ancor più di quanto già fanno – come posizione ideologica e di puro interesse politico; e pungendo gli altri in quell’orgoglio che li spingerebbe persino a bruciare qualche pagina del Vangelo pur di non ammettere di avere qualche cosa da imparare dagli altri. Naturalmente con buona pace del Signore Gesù, che non perdeva occasione di additare ai farisei, ai sacerdoti, ma anche ai suoi discepoli la maggior disponibilità del centurione, dei pubblicani e delle prostitute nell’accogliere la sua parola e quella del Battista. Forse anche qui è solo questione di occhiali… certamente di conversione. Ma appunto, quaresima è tempo di conversione.

Alberto Vitali



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