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                Il 
                24 gennaio scorso abbiamo pregato per la pace con il Papa e gli 
                altri rappresentanti delle diverse religioni riuniti ad Assisi. 
                Siamo dunque partiti con il piede giusto: la pace, massima aspirazione 
                del genere umano e simbolo che esprime l'intero progetto di Dio 
                sulla creazione, non potrà mai essere semplicemente il risultato 
                dei nostri sforzi o delle nostre volontà. Non ne saremmo all'altezza 
                e l'esperienza ci ha già tristemente dimostrato che non lo siamo 
                mai stati. La pace è invece primariamente un dono da implorare, 
                tutti insieme, e del quale porsi a disposizione in atteggiamento 
                di totale servizio. Così, adesso, dopo averla invocata e non dubitando 
                che la generosità di Dio vorrà riversarla abbondantemente su tutti 
                i popoli, dobbiamo adoperarci perché penetri nelle fibre del quotidiano 
                - come il seme nella terra -, rimuovendo tutto ciò che la potrebbe 
                soffocare - i "rovi e le erbacce" della parabola (Lc 8,14) - e 
                creando le condizioni necessarie perché possa finalmente fruttificare. 
                Già papa Giovanni XXIII ci aveva indicato questo compito nell'enciclica 
                "Pacem in Terris". Allora il papa non solo aveva ribadito i principi 
                etici, astratti ma fondamentali, della convivenza umana nel segno 
                della giustizia e della pace, ma aveva invitato tutti a scrutare 
                i "Segni dei tempi", cioè a riconoscere i segni dello Spirito 
                che opera nella nostra storia per portare a compimento il progetto 
                di Dio. Ci aveva inoltre esortato a non dubitare che quei piccoli 
                germi sarebbero giunti a piena maturazione, dal momento che Dio 
                ha ormai indissolubilmente legato se stesso al nostro destino. 
                Papa Giovanni ci invitava quindi a non restare spettatori passivi, 
                ma ad assumerci le nostre responsabilità. Nell'atto stesso della 
                creazione, Dio ha infatti costituito l'uomo quale suo partner 
                e corresponsabile di tutto il Creato. E, forse in un "eccesso" 
                - consentitemi questa espressione - di amore e rispetto nei confronti 
                dell'uomo, da allora non ha più operato senza il suo libero consenso 
                e la sua com-partecipazione. Al punto che, su quel grande palcoscenico 
                della libertà umana che è il mondo, è possibile distinguere lo 
                svolgersi di storie diverse, intersecate e paradossalmente parallele 
                allo stesso tempo: quella costruita, giorno dopo giorno, dagli 
                uomini e dalle donne di "buona volontà", che adorano il Dio della 
                Vita, e quelle di coloro che perseguono i propri idoli, e adorano 
                Mammona (Lc 16,13). E qui sta il punto focale del nostro discorso: 
                non si può parlare di pace a prescindere dal Dio a cui si serve; 
                non si può pensare la pace se non come logica conseguenza (in 
                tutti i sensi) del progetto di convivenza e di sviluppo che intendiamo 
                perseguire. Sarebbe infatti una tentazione forte quella di voler 
                attribuire alla precarietà delle relazioni umane, alla fatalità 
                della storia o alla malvagità di pochi, le carenze di pace, fino 
                all'estrema catastrofe della guerra, che ancora ai nostri giorni 
                dobbiamo registrare. Sarebbe un alibi grossolano e finalizzato 
                solo a dispensare le nostre coscienze dal mettere in discussione 
                l'attuale modello di sviluppo e i nostri interessi, alienando 
                ogni responsabilità sul "cattivo" di turno, come avviene nelle 
                fiabe. Ma a riportarci nella realtà - e a porci di fronte alle 
                nostre responsabilità - è stato ancora una volta un papa che, 
                rompendo la lettura mistificante dell'ideologia dominante, con 
                la quale i potenti volevano creare consenso sulla necessità dell'attuale 
                conflitto - strumentalizzando per questo le differenze culturali 
                e religiose dei popoli - ha smascherato le cause della violenza 
                insite negli squilibri sociali e ha ricondotto la paternità dei 
                conflitti alle ingiustizie strutturali dell'attuale sistema economico. 
                Così infatti Giovanni Paolo II si è espresso durante l'Angelus 
                del 11 novembre 2001: "Mentre rendiamo grazie a Dio per quanto 
                i campi quest'anno hanno prodotto, non dobbiamo dimenticare i 
                fratelli e le sorelle che, in varie parti del mondo, sono privi 
                dei beni essenziali come il cibo, l'acqua, la casa, l'assistenza 
                sanitaria. In modo speciale, in questo momento di grande preoccupazione 
                internazionale, penso alle care popolazioni dell'Afghanistan, 
                alle quali è urgente far giungere ogni necessario aiuto. Si tratta 
                di un'emergenza mondiale, che non può tuttavia farci dimenticare 
                che in altre parti del mondo permangono purtroppo condizioni di 
                grave indigenza e impellente necessità. Dinanzi a queste situazioni, 
                non è sufficiente limitarsi ad iniziative straordinarie. L'impegno 
                per la giustizia richiede un autentico cambiamento dello stile 
                di vita, soprattutto nelle società del benessere, come pure un 
                più equo governo delle risorse, sia nei Paesi ricchi che in quelli 
                poveri. Gli attuali pesanti squilibri, infatti, alimentano conflitti 
                e minacciano in modo irreversibile la terra, l'aria, le acque, 
                che Dio ha affidato alla custodia dell'umanità". Il nostro impegno 
                per la pace non può dunque prescindere da quello per la giustizia 
                sociale e da un giudizio cristiano sul modello di sviluppo vigente. 
                A questo proposito mi sembra importante tornare a leggere, alla 
                luce della situazione attuale, alcuni passi della "Pacem in Terris". 
                Nel paragrafo 10, dedicato ai Diritti attinenti il mondo economico, 
                Papa Giovanni, rifacendosi alla "Rerum novarum" di Leone XIII 
                affermava che: "A siffatti diritti [diritto di libera iniziativa 
                in campo economico e il diritto al lavoro n.d.r.] è indissolubilmente 
                congiunto il diritto a condizioni di lavoro non lesive della sanità 
                fisica e del buon costume, e non intralcianti lo sviluppo integrale 
                degli esseri umani in formazione; e, per quanto concerne le donne, 
                il diritto a condizioni di lavoro conciliabili con le loro esigenze 
                e con i loro doveri di spose e di madri". Solo qualche anno fa, 
                nella beata ingenuità che mi affliggeva, avrei ritenuto queste 
                puntualizzazioni un retaggio del passato, rimaste nella memoria 
                di un buon vecchio, ma ormai divenute superflue, perché superate 
                dal progresso e dalla civiltà. Oggi mi sembrano piuttosto un obiettivo 
                tanto urgente quanto difficile da realizzare, ai limiti dell'utopia. 
                Condizioni di lavoro che ledono la sanità fisica e psichica dei 
                lavoratori, che impediscono uno sviluppo integro dei bambini e 
                alle donne la possibilità di realizzarsi in quanto persone e madri, 
                non sono semplicemente una triste, dilagante realtà, ma la condizione 
                "sine qua no" si regge l'attuale sistema economico. Non certo 
                in Italia (si fa per dire…) o negli aspetti visivi dell'Occidente, 
                ma in tutto quello che ci ostiniamo a chiamare "Terzo Mondo" e 
                nei bassifondi dell'auto-definitosi "Primo Mondo", è lo sfruttamento 
                senza pietà di milioni di piccoli e grandi lavoratori e lavoratrici 
                che garantisce i margini di profitto di molte aziende e, in definitiva, 
                l'opulenza di tutto "l'occidente". Chissà se quando auspicava 
                "una retribuzione del lavoro determinata secondo criteri di giustizia, 
                e quindi sufficiente, nelle proporzioni rispondenti alla ricchezza 
                disponibile, a permettere al lavoratore ed alla sua famiglia, 
                un tenore di vita conforme alla dignità umana", papa Giovanni 
                immaginava che quarant'anni dopo il suo scritto, nei "bananeri" 
                dell'America Latina i raccoglitori (maschi e adulti) avrebbero 
                ancora lavorato dodici ore al giorno, sette giorni su sette, per 
                meno di due euro al giorno, dove il rapporto costo-prodotto e' 
                simile al nostro? E per uno sciopero pacifico finiscono in galera 
                senza la possibilità di pagarsi un avvocato e quindi di uscire! 
                Naturalmente gli esempi di questo genere si sprecherebbero… così 
                come si sprecano, ogni giorno, le possibilità per costruire una 
                pace stabile e duratura. Del resto, non ne abbiamo neanche diritto. 
                Quando siamo disposti ad accettare una situazione mondiale in 
                cui 815 milioni di persone sono al di sotto della soglia di povertà; 
                24.000 (di cui 18.000 al di sotto dei 5 anni) muoiono giornalmente 
                di fame, e ci diamo come massimo obiettivo (già fallito) di salvarne 
                solo la metà nei prossimi 20 anni, con quale diritto invochiamo 
                la pace? E quale Dio potrebbe essere tanto cinico da ascoltarci, 
                se non chiedendoci in cambio un impegno serio e sincero? Quando 
                Pio XII e Giovanni XXIII ribadivano che "Ogni essere umano ha 
                il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell'interno 
                della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, 
                quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre 
                comunità politiche e stabilirsi in esse (cf. Radiomessaggio natalizio 
                di Pio XII, 1952). Per il fatto che si è cittadini di una determinata 
                comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, 
                in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l'appartenenza, 
                in qualità di cittadini, alla comunità mondiale", avranno mai 
                potuto immaginare la bassezza dei calcoli che di lì a qualche 
                anno si sarebbero fatti anche nella "città eterna" per decidere 
                a quanti uomini, "creati a immagine e somiglianza di Dio" (so 
                di essere "fuori moda", oggi non si chiamano più così…) dare la 
                possibilità di venire a lavorare nel nostro paese e garantire 
                un futuro alle loro famiglie? E' dunque evidente a chiunque abbia 
                conservato un briciolo di onestà intellettuale - Gesù direbbe 
                "ai puri di cuore" - che questa Globalizzazione ha urgentemente 
                bisogno di redenzione. Sì, di salvezza: ma da dove iniziare? Jon 
                Sobrino, teologo salvadoregno e stretto collaboratore di Mons. 
                Romero, lui stesso scampato casualmente al massacro in cui vennero 
                uccisi i suoi compagni gesuiti dell'Università di San Salvador, 
                ha recentemente avanzato una proposta interessante, in un articolo 
                apparso sulla rivista teologica "Concilium" (5/2001). Sobrino 
                suggerisce di lasciarsi guidare dalla Bibbia per scorgere nei 
                poveri, nelle vittime del sistema, non solo i destinatari, ma 
                anche i mediatori, gli strumenti della salvezza divina: "La tradizione 
                biblico-cristiana è esperta sul tema della redenzione/salvezza 
                e sui dinamismi che entrambe le cose generano. La salvezza comporta 
                promessa e, correlativamente, speranza, ma la sua specificità 
                è che nasce dalla fragilità e dalla piccolezza: un'anziana sterile, 
                il piccolo popolo di Israele, la piccola Betlemme, un ebreo marginale... 
                La fragilità e la piccolezza stanno al centro del dinamismo della 
                salvezza. Essi ne sono i portatori, non solo i beneficiari. L'utopia 
                è in consonanza con la loro speranza e non con quella dei potenti. 
                E la loro piccolezza manifesta il momento essenziale di gratuità 
                della salvezza…. Questa tradizione del piccolo come portatore 
                di salvezza attraversa la Scrittura, ma c'è di più. Nell'Antico 
                Testamento appare la misteriosa figura del servo sofferente di 
                Jahweh che non è solo "povero", "piccolo", ma anche "vittima". 
                Orbene, questo servo è l'eletto di Dio per togliere il peccato 
                del mondo e portare salvezza. Allo scandalo del piccolo si aggiunge 
                ora la follia della vittima". Il loro "potenziale salvifico" si 
                concretizza inoltre per tre aspetti fondamentali. Anzitutto le 
                vittime "convocano alla verità": dalla loro realtà crocifissa 
                proviene una luce che denuncia e smaschera la menzogna della globalizzazione, 
                che viene invece presentata dai suoi cultori quale "il migliore 
                dei mondi possibili". Poi "convocano alla solidarietà". Naturalmente 
                ci riferiamo alle vittime "coscientizzate", a coloro cioè che 
                non hanno introiettato il modello di sfruttamento a cui sono sottoposti, 
                e anziché tentare di riscattarsi riproponendolo a loro volta nei 
                confronti di chi sta peggio di loro, cercano un riscatto per tutti, 
                elaborando modelli di convivenza veramente sostenibili e solidali. 
                Infine, in alternativa alla "civiltà della ricchezza", impossibile 
                da estendere a tutti e che ha imbarbarito, anziché umanizzare, 
                i rapporti, propongono la "civiltà della povertà", in senso evangelico. 
                "Una civiltà... in cui la povertà non sarebbe più la privazione 
                del necessario e del fondamentale dovuta all'azione storica di 
                gruppi o classi sociali e di nazioni o insieme di nazioni, ma 
                uno stato universale di cose, in cui è garantito il soddisfacimento 
                dei bisogni fondamentali, la libertà delle scelte personali e 
                un ambito di creatività personale e comunitaria che consenta la 
                comparsa di nuove forme di vita e cultura, nuove relazioni con 
                la natura, con gli altri, con se stessi e con Dio" (I. Ellacuria). 
                Questo implica, soprattutto per noi cristiani, una rielaborazione 
                integrale del modello di globalizzazione a partire da un'autentica 
                "scelta per i poveri". Vale a dire: giudicare la realtà dalla 
                prospettiva dei poveri, che è la più veritiera: non perché essi 
                siano più santi degli altri, ma perché non hanno interessi da 
                nascondere, se non che emerga la verità della realtà che li opprime; 
                elaborare una spiritualità della povertà - per la quale possiamo 
                pescare a piene mani dalla tradizione - perché il tutto non si 
                riduca a pura ideologia, ma soprattutto perché, nel momento in 
                cui la lotta contro "il principe di questo mondo" si farà più 
                dura, avremo una mistica che ci sostenga; avere come Gesù il coraggio 
                di rompere con certe, comode ma ambigue, alleanze e dire con lo 
                stesso amore e la stessa sofferenza: "beati voi poveri… ma guai 
                a voi ricchi" (Lc 6,20-26). Gesù amava anche i ricchi e per questo 
                non poteva non avvisarli delle disgrazie che incombevano su di 
                loro. I Vangeli testimoniano in più passi l'amore indiscriminato 
                di Gesù verso tutti, fino al pianto per la durezza dei potenti 
                che rifiutando la sua parola si votavano alla rovina. Per questo 
                fu sempre chiaro e spesso duro: ogni cedimento ad una ambigua 
                condiscendenza, avrebbe significato un cedimento d'amore. Era 
                venuto per salvare tutti, e per questo non poteva assumere una 
                generica neutralità: prendere posizione, rifiutando la tentazione 
                satanica (Mt 4,8-10) di schierarsi col potere, nell'illusione 
                di recare qualche beneficio ai poveri, è stata la sua "strategia" 
                di salvezza universale. Mons. Romero diceva: "la Chiesa ha una 
                buona notizia da annunciare ai ricchi: che si convertano al povero 
                per condividere con lui i beni del Regno". Oggi non mancano aziende 
                transnazionali che ammazzano bambini in tutto il mondo, per scellerate 
                operazioni di marketing o lo sfruttamento impietoso del loro lavoro 
                e appaiono sulle liste dei benefattori dell'umanità, grazie alla 
                gratitudine di organizzazioni ed istituti cristiani… solo perché 
                ci elargiscono i fondi dei loro magazzini o i prodotti a breve 
                scadenza. A questi compromessi Gesù non è mai sceso. Solo se sapremo 
                come lui gridare, con la voce e ancor più con la vita, con amore 
                e con le lacrime agli occhi: "beati voi poveri… ma guai a voi 
                ricchi", potremo costruire una globalizzazione non solo eticamente 
                giusta, ma anche sostenibile e gravida di pace. 
              Alberto 
                Vitali 
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