Mons. Oscar Arnulfo Romero

 


Una lotta con la madre

di Abramo Levi

Un osservatore commosso ma attento della scena che seguì all'assassinio del vescovo Romero, notò il rapido ritorno alla normalità del volto e del corpo dell'ucciso, una volta che la faccia fu lavata dai grumi di sangue e la salma rivestita degli abiti pontificali. Lo notò con un certo disappunto, perché gli sembrava che quella pur pietosa opera di misericordia riducesse la figura del vescovo al solito cliché del pontefice morto, lavati via i segni della passione. Il pericolo del cliché tocca, sia pure oggi diversamente, chiunque voglia parlare di mons. Romero. Per sfuggirvi non trovo via migliore che quella di mettergli a fronte e a confronto la testimonianza di un vescovo, fortunatamente ancora vivo, che corre consapevolmente il rischio di essere ucciso a causa del Vangelo da annunziare ai poveri. E' la testimonianza del vescovo Aldo Gerna, italiano di origine ma cittadino del Brasile, vescovo della Diocesi di S. Mateus nello Stato di Espiritu Santo. "Durante alcuni mesi la stessa sorte (di essere ucciso) sembrava toccare anche me. Un gruppo di anonimi aveva deciso: il vescovo di S. Mateus deve essere eliminato perché perturba la pace dello Stato. Per un buon periodo ho vissuto questa straordinaria esperienza di sentirmi sull'orlo della morte violenta. E' immensamente salutare. Non è l'ipotesi della fine con i colori del martirio il pensiero più insistente. E' la somma stoltezza della violenza inutile e ingiusta, sentita imminente sulla pelle, che da la misura della pochezza e della fragilità della vita. Bastano pochi soldi nelle mani di un "contrattato" e questi ti spedisce al Creatore senza difficoltà. Morire, sì, ma perché?… Solo per un fatale equivoco? Per uno strano mito negativo costruito sulla mia persona?… Sullo sfondo di tutto sta il nostro eterno problema: terra, pane, vita per i poveri. Solo questo vogliamo… Ma come dire queste esperienze alla nostra santa Madre Chiesa? Come scriverle a Roma? Roma non vede da vicino la sottoumanità dei poveri composta dal 70-80% della popolazione. Non riesce a capire la nostra assoluta necessità di stare con i poveri, senza escludere gli altri ma senza sotterfugi. Non mi sento ribelle usando questo linguaggio. Grido perché si dilatino gli spazi della carità, a cui Roma deve presiedere". Dopo questa rapida ma abbastanza precisa messa a fuoco della figura di mons. Romero a raffronto con una figura simile, possiamo osservarla con maggior chiarezza e realismo. Qualcuno nel fervore del panegirico paragonò la "conversione" di mons. Romero a quella di S. Paolo. Per ridurre questo paragone entro termini accettabili e nel contempo entrare nel vivo della personalità dal vescovo Romero osserviamo i cavalli cavalcati dai due. L'iconografia ha talmente insistito sul cavallo da cui S. Paolo fu sbalzato che anch'esso (il cavallo) entra ormai a pieno titolo nella composizione della scena di conversione. E' un cavallo quale lo descrive il libro di Giobbe: grande, grosso e furioso, come il suo cavalcatore. Come è invece il cavallo da cui Romero infine dovette scendere? Sentiamo egli stesso: "Quando la mamma mi mandava per qualche commissione, mi diceva: - se vuoi fare più presto, monta sul cavallino di legno! - E io correvo felice sul mio cavallino: perequé, perequé, perequé…".

La madre, le madri

Questo cavalluccio, dal quale l'Arcivescovo di San Salvador dovette scendere, fu la sua educazione, o piuttosto sottomissione familiare: l'obbedienza indiscussa alla madre (sia essa la mamma o la madre Chiesa) così da rendere all'una e all'altra l'onore da esse ricevuto. Mons. Romero cominciò a lasciare in un angolo il suo cavalluccio nel momento stesso in cui gli onori della mamma e quelli della madre Chiesa confluirono sulla sua testa mitrata. Quando lo nominarono Arcivescovo di San Salvador, alcune signore dell'alta società gli espressero l'intenzione di costruirgli un nuovo palazzo episcopale. "Volentieri accetterei, rispose l'Arcivescovo - il giorno in cui avessero una casa tutti i poveri che abitano nei barrios". Com'é vero che una decisione tira l'altra (come anche una mancata decisione impedisce una serie di altre decisioni!). L'altra decisione di mons. Romero fu quella relativa al prete guerrigliero Neto. Non aveva certo chiesto all'Arcivescovo il permesso di entrare nella guerriglia. Non l'avrebbe sicuramente ottenuto. Ma quando Neto fu ucciso e si trattò di partecipare o di non partecipare alle esequie, mons. Romero (dopo qualche comprensibile esitazione) ha deciso di partecipare. Più bella della decisione fu la ragione della decisione stessa: - la mamma di Neto sarà certamente là: allora devo esserci anch'io - . Ecco la mamma riviene fuori. Ma non è più la mamma come simbolo di un'educazione e di una sottomissione, bensì la madre come puro simbolo di amore e di dolore. Riviene fuori, nello stesso momento, anche la madre Chiesa, ma non più identificata con il suo apparato gerarchico, tanto legittimo quanto imponente. Vene fuori la madre Chiesa nella sua identità genetica. Lo rivela l'omelia per le esequie di p. Rutilio Grande (il gesuita a cui si è soliti far risalire la conversione di mons. Romero): "Poche volte come questa mattina la cattedrale appare come segno della Chiesa universale. Qui vi è la convergenza di tutta la ricca pastorale di una Chiesa locale che si intreccia con la pastorale di tutte le diocesi e di tutto il mondo; e allora ci rendiamo conto che la presenza non solo dei vivi, ma anche di questi tre morti (con p. Rutilio erano stati assassinati due poveri contadini) conferisce a questa figura di Chiesa una prospettiva aperta all'assoluto, all'infinito, all'aldilà: la Chiesa universale, Chiesa che va al di là della storia, Chiesa che va al di là della vita umana".

Andare a vedere

In quel momento, in quelle esequie, in quelle morti Romero nasceva alla sua Chiesa e la sua Chiesa nasceva a lui. Se si vuol parlare di conversione di mons. Romero, una conversione quasi fisica fu proprio questa: non stare a vedere ma andare a vedere. Per strano che possa sembrare - ma infine non lo dovrebbe essere - è con l'andare a vedere che cambia il punto di vista. C'è una frase del Vangelo che Gesù indirizza ad una donna: … che c'è tra me e te, donna? Non farebbe assolutamente scandalo questa frase se fosse stata rivolta da Gesù alla samaritana, o alla peccatrice in casa di Simone, o alle stesse Maria e Marta. Invece la frase è indirizzata alla madre, a Maria. Così non avrebbe fatto scandalo se mons. Romero avesse mandato a dire alla mamma di Neto: che c'è tra me e te, donna? Lo scandalo invece nasce dal fatto che mons. Romero rivolge, almeno implicitamente questa frase alla propria madre e alla madre Chiesa, per mettersi invece al fianco della mamma di Neto. Come si vede bene, non è la maternità in gioco. Non è in gioco per mons. Romero il riconoscimento della Chiesa. Egli fu fedele dall'inizio alla fine al suo motto episcopale "Sentir cum la Iglesia". Ciò che si modificò e profondamente, fu quel "sentir". Gradualmente e con una maturazione progressiva, mons. Romero passò dal semplice assenso alla Chiesa al sentire con la Chiesa. Passò da un rapporto gerarchico a un rapporto genetico. E qui la parola deve per forza passare allo stesso Vescovo Romero: "Non si deve intendere - scrive mons. Romero nella seconda Carta pastorale - la fondazione della Chiesa in maniera legale, giuridica, come se Cristo avesse dato una Carta fondamentale ad alcuni uomini, tenendosi poi separato dagli uomini. L'origine della Chiesa è assai più profonda. Cristo fondò la Chiesa per stare egli stesso presente nella storia degli uomini, tramite il gruppo dei cristiani che formano la Chiesa. La Chiesa è come la carne nella quale Cristo concentra lungo i secoli la propria vita e missione personale: Corpo storico di Cristo. Proprio per fedeltà a questo sentire con la Chiesa mons. Romero denuncia il pericolo di responsabilità per ciò che accade di ingiusto, crudele e atroce. "Questo è il pensiero fondamentale della mia predicazione. Niente mi interessa come la vita umana… Il sangue e la morte vanno molto più in là di ogni politica e toccano il cuore stesso di Dio… Niente ha tanta importanza per la Chiesa come la vita umana. Soprattutto la persona dei poveri e degli oppressi, per i quali Gesù disse che tutto ciò che vien fatto ad essi, viene fatto a Lui".

La lotta con la madre

Osservata con occhio puramente umano, la vicenda di mons. Romero potrebbe dunque essere definita simbolicamente come una lotta contro la madre. Egli superò la lotta con la mamma, scendendo dal cavalluccio della sottomissione per mettersi al fianco della mamma del prete guerrigliero Neto. Superò la lotta con la madre Chiesa, preferendo ai simboli del palazzo l'umilissimo appartamento presso l'ospedale (con tutto ciò che una simile scelta comportava). Ma sdrucciolò infine sulla buccia della madre Patria, quando raccomandò e comandò ai soldati di non sparare. Ma possiamo osservare con altri occhi la passione di mons. Romero, con un piccolo episodio, incantevole e profetico. Racconta mons. Iniesta, Ausiliare di Madrid: "Una vecchietta salvadoregna veniva di quando in quando, da molto lontano, ad ascoltare la messa dell'Arcivescovo, poi si intratteneva qualche po' con lui e gli offriva frutti coltivati da lei. Un giorno, l'ultima volta che venne a vederlo, gli portò come sempre della frutta. Questa volta però gli portò un crocifisso, che gli pose al collo, e una corona di spine presa da una pianta chiamata izcanal, con spine di due o tre centimetri, e chiese di potergliela mettere sulla testa. Mons. Romero accettò, e mentre l'Arcivescovo teneva la corona di spine in testa e il crocifisso al petto, la vecchietta lo benedisse". Chi non riconoscerebbe in questa vecchietta Maria di Betania, che unse il capo di Gesù in vista della sepoltura?

(Mosaico di Pace, Febbraio 1991)



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